I tiranti del ponte Morandi erano un ammasso di ruggine e corrosione. E già ben prima del crollo del 14 agosto scorso. Lo dimostrano le foto e i rapporti pubblicati dal sito dell’Espresso. Dentro alle coperture di cemento alcuni cavi dei tiranti erano liberi di muoversi e avevano perso la loro capacità di carico addirittura tra il 50 e il 75 percento. Già nell’agosto del 2011 un’ispezione certificava che la situazione la pila 9 (quella crollata) e la 10 (pericolante) era gravissima: “Sono risultati deformabili anche solo facendo leva con uno scalpello: si può quindi ritenere che non presentino più la tensione prevista e quindi siano da ritenere non efficaci”, scrivono i tecnici della Spea, lo studio di ingegneria collegato all’azienda concessionaria e appartenente allo stesso gruppo della famiglia Benetton. Il medesimo risultato viene confermato da un’ispezione ripetuta due anni dopo.
Eppure quei rapporti non vennero mai presi in considerazione né dal ministero delle Infrastrutture e neanche dalla società Autostrade per l’Italia. O meglio: nessuno intervenne per chiudere il ponte e magari provare a evitare la tragedia dei 43 morti. Nel registro degli indagati è stato iscritto da parte della procura di Genova il direttore della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, Vincenzo Cinelli. Nei prossimi giorni, però, secondo il settimanale diretto da Marco Damilano, potrebbero essere sentiti come testimoni i dirigenti che oltre a Cinelli hanno guidato la direzione generale dal 2011 a oggi. È l’ente che avrebbe dovuto garantire la sicurezza nelle infrastrutture, predisponendo i programmi di ispezione.
Dal 2011 – anno della prima ispezione – al giorno del crollo passano sette anni. Le fotografie pubblicate dall’Espresso e i rapporti che le contengono erano noti agli uffici operativi di società Autostrade, a cominciare dal direttore delle manutenzioni. Le immagini e i dossier erano anche a disposizione degli uffici del ministero delle Infrastrutture: almeno da novembre 2017 a oggi. Si tratta di oltre 500 pagine di analisi, allegate al progetto esecutivo per il rifacimento del viadotto che il comitato del provveditorato e la direzione di Cinelli hanno approvato. Il giornalista Fabrizio Gatti pubblica estratti delle “indagini diagnostiche sugli stralli di pila 9 e pila 10”, cioè i tiranti di calcestruzzo e acciaio che sorreggono parte dell’autostrada in quel tratto.
A gennaio 2016 i tecnici di Spea Alessandro Costa, Leonardo Veronesi, Maurizio Ceneri con l’approvazione del direttore tecnico Giampaolo Nebbia scrivono che su – cinque punti scelti a campione (tre sul pilone 10 e due sul pilone 9) – uno dei cavi che dovrebbe garantire la precompressione del calcestruzzo e la solidità della struttura ha una perdita della capacità di carico del 75 percento. Altri due cavi del 50 percento e uno non si trova dove dovrebbe essere. “Sono stati visti due dei quattro trefoli che sono apparsi tesati”. Il trefolo – spiega sempre l’Espresso – è l’elemento costitutivo delle corde ma anche dei cavi d’acciaio, formato da fili ritorti.
Nella stessa pila 10, non viene trovato invece nessun “cavo di precompressione” dopo aver perforato per 18 centrimetri. “Questo fa presupporre che in alcuni casi la disposizione dei cavi possa non corrispondere esattamente a quella ipotizzata in progetto”. Sempre sulla pila 10 – cioè il pilone ancora pericolante – i tecnici scrivono che “sono stati visti due dei quattro trefoli che si muovono con facilità facendo leva con uno scalpello”. In pratica vuol dire che sono rotti da qualche parte: in questo modo hanno 50 percento di capacità di carico in meno. Nella pila 9 – quella crollata – invece “la guaina è apparsa ossidata, l’iniezione è assente, sono stati visti tre dei quattro trefoli che si muovono con facilità facendo leva con uno scalpello”. Significa che qui la capacità di carico ha perso il 75 percento. Che il ponte potesse crollare non era un’ipotesi totalmente aleatoria.