di Eleonora Carrano e Carlo Severati, presidente Embrice 2030
A poche ore dal crollo del viadotto sul Polcevera (con un tempismo tanto sorprendente quanto inopportuno), l’ipotetica causa del disastro che sollevava da ogni responsabilità in un colpo solo Autostrade per l’Italia e il ministero dei Trasporti veniva spiegata, in sintesi, nel seguente modo: “Il crollo non è dovuto alla pioggia o alla scarsa manutenzione”, “Il ponte Morandi è un fallimento dell’ingegneria” “Morandi aveva sbagliato il calcolo della ‘deformazione viscosa’, quello che succede alle strutture in cemento armato nel tempo”, “Morandi era un ingegnere di grandi intuizioni ma senza grande pratica di calcolo”.
Praticamente, una fatalità ineluttabile e ineludibile, il cui tragico epilogo è da ricondursi – secondo alcuni degli esperti interpellati – alla scarsa familiarità dell’ingegner Morandi con il calcolo. Una semplificazione che ha ovviamente trovato ampie smentite già durante le prime indagini e un’accusa che ha costretto il figlio di Morandi (in solitario) a rompere il silenzio per difendere il nome del padre. Ci saremmo aspettati, se non nell’immediato, nei giorni successivi, almeno una difesa d’ufficio da parte della Soprintendenza di Genova o dell’Ordine nazionale degli ingegneri della figura e del lavoro di Riccardo Morandi (Roma 1902-ivi 1989) che, progettista del proprio tempo, è stato un grande protagonista dell’architettura e dell’ingegneria italiana.
L’opera di Riccardo Morandi va vista nel quadro delle grandi realizzazioni strutturali attuate in Italia nel decennio che segue il 1955: dalla Torre Galfa di Milano (102 metri) alle Cartiere Burgo (unico ambiente senza sostegni intermedi di 250 metri ) alle tribune dell’Ippodromo di Tor di Valle (800 metri quadri tenuti da un solo pilastro), al Ponte sul Basento, calcolato con l’aiuto delle tecniche sperimentali di Antoni Gaudi.
Sergio Musmeci, Gino Còvre, Calogero Benedetti, Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi e molti altri davano corpo – complici le Olimpiadi del 1960 e Torino 1961 – alla saldatura fra popolo e classe dirigente e valevano qualunque sforzo. Costavano comunque meno di un’operazione corretta sulle aree urbane, lasciate alla speculazione. Al tempo stesso le opere di ingegneria assumevano un valore fortemente simbolico, non dissimile da quello assunto durante il Fascismo. Il brevetto Nervi del ferrocemento è del 1943 e la sua prima applicazione è del 1948, per il grande salone che ospita la Mostra dell’automobile. Bruno Zevi, che definiva Morandi più coraggioso di Nervi, affermava che le sue opere sembravano quasi sfidare le leggi statiche e ricordava il suo capolavoro, il salone interrato a Torino del 1959, con una struttura in cemento armato precompresso poggiante su bielle inclinate che, in apparenza minacciavano di slittare. E anche un piccolo intervento come il Viadotto della Magliana a Roma, sfociava in oggetto poetico, quasi ligneo.
Dopo il discusso e contestato “dono” di Renzo Piano del suo progetto per la realizzazione di un nuovo ponte per Genova (ora tallonato da Calatrava), in questi giorni si sta ipotizzando il recupero di quanto rimane del viadotto Morandi con un’opera di consolidamento. Per i promotori di questa iniziativa, tra i quali Italia Nostra, questo tipo di procedura impone – con la Valutazione di impatto ambientale – la scelta tra varie soluzioni che garantirebbe costi contenuti e tempi rapidi di realizzazione oltre la salvaguardia di un’opera di valore. Noi invece riteniamo che ciò che non veniva valutato un assurdo – e non c’è chi non veda che di assurdo si trattava, con un traffico folle sulla testa della gente – 50 anni fa, non crediamo possa essere riproposto oggi tale e quale, demolendo alcuni condomini.
Il ” Viadotto” passò in una logica di assetto territoriale approssimativa; questa si giustificava sul bordo del miracolo economico e della identificazione dell’Italia come una nazione “automobile oriented“, con l’Industria automobilistica che cancellava la via all’auto elettrica e quella petrolifera che vedeva di buon occhio la demolizione di piccole ferrovie – come, ad esempio, la Calalzo-Cortina. Poteva addirittura, quel nodo di città, evocare alcuni fotogrammi di Metropolis e legarsi alla esaltazione futurista della macchina.
Ci saranno fatalmente diversi anni di sacrifici per venirne fuori, con lo stravolgimento di orari di lavoro, con il contingentamento del traffico sulla viabilità di fortuna nell’arco delle 24 ore. Come succede ovunque, appunto in caso di catastrofe. Ma crediamo che vada anzitutto riconosciuto che ciò che sembrava naturale allora, in termini di assetto territoriale e di scelta tecnica poi, sia oggi improponibile. Quindi, un concorso internazionale potrebbe essere effettivamente la scelta, giusta quanto temuta. Ma il tema del Concorso non dovrebbe essere ” la sola ricostruzione del ponte” quanto piuttosto la costruzione di nuovi collegamenti pedonali, gomma e ferro, in un nuovo piano economico e di assetto territoriale di questa vitale quanto idrogeologicamente difficile area metropolitana.