Oltre che la più colossale bancarotta della storia americana il crac di Lehman Brothers fu il brusco risveglio da un sogno sognato da molti. Non improvviso, poiché di sveglie ne stavano suonando tante e da tempo. Ma roboante, “spettacolare” e violento, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione. Fu la fine dell’illusione che esistesse un modo per imbrigliare e neutralizzare il rischio di un investimento. L’implosione di un’alchimia che prometteva abitazioni alla portata di ogni tasca, guadagni per chi le costruiva e vendeva, profitti per le banche che erogavano i mutui e, per le banche d’affari che li “trasformavano”, per le agenzie di rating che li valutavano, per le assicurazioni che li garantivano. Il fallimento della quarta banca d’affari statunitense non innescò la crisi dell’economia, che era già in corso da almeno un anno, e non cambiò la traiettoria di un trend di crescente diseguaglianza in atto da tempo. Ebbe piuttosto un effetto di improvvisa e forte accelerazione di queste dinamiche. In una prospettiva di più lungo termine la vera crisi riguardò qualcosa di più impalpabile e più importante: la fiducia nella capacità del sistema economico e finanziario di generare prosperità. E i conti con l’eredità di questo terremoto, purtroppo, non sono ancora chiusi.

L’economia statunitense è riuscita a rimettersi in carreggiata abbastanza rapidamente grazie ai colossali aiuti pubblici erogati sotto varie forme. In tutto 7mila e 700 miliardi di dollari di cui hanno beneficiato principalmente banche, assicurazioni, industria dell’auto ma non solo. Ancora oggi la Federal Reserve tiene a bilancio titoli acquistati nei mesi più caldi della crisi, quando nessun altro voleva comprarli, per un valore di circa 4mila miliardi di dollari. Non sono necessariamente soldi che andranno persi ma denotano come il pieno ritorno alla normalità sia ancora lontano (lo stesso si può dire della Banca centrale europea che ha visto il suo bilancio “esplodere” da mille a quasi 5mila miliardi di euro). Il debito pubblico statunitense è balzato dal 62% del Pil del 2007 al 100% del 2013 e nel 2009 il deficit è arrivato a toccare il 7% del Pil. Nell’anno più duro della crisi il governo americano spese infatti mille e 200 miliardi di dollari per il sostegno alle banche e altre istituzioni finanziarie, a settori industriali come quello dell’auto oltre che per trasferimenti alle famiglie e investimenti in infrastrutture.

La crisi, che viene esasperata dal fallimento di Lehman, era in realtà iniziata già nel 2006, annunciata da un deciso quanto repentino calo dei consumi. Già nella prima metà del 2008 le vendite di auto registrarono ad esempio una flessione del 10%, segnale importante per capire come l’indebitamento delle famiglie avesse ormai superato un livello sopportabile. Tra inizio 2008 e la prima metà del 2009 il Pil Usa si contrae di quasi il 10% e la disoccupazione balza dal 6 al 10%. Nel giugno 2009 la produzione industriale tocca il suo minimo, sotto del 20% rispetto al picco raggiunto nel 2007. Come ha poi ricostruito la Federal Reserve di St Louis ad essere più colpiti furono settori come l’edilizia e le costruzioni, le industrie di beni durevoli e quelle del commercio al dettaglio. Si salvarono invece agricoltura, sanità ed educazione.

La cura shock somministrata dal governo americano sortisce però gli effetti sperati piuttosto rapidamente. Nella seconda parte del 2009 il Pil statunitense riprende a salire e, tra qualche scossone, i livelli pre-crisi vengono recuperati nel 2011. La banche riconquistano rapidamente i loro valori di Borsa e tornano a macinare utili. Oggi le azioni di Jp Morgan e Goldman Sachs valgono il triplo rispetto all’ottobre 2008, ma già nel settembre 2009 i valori precedenti al crac Lehman erano stati recuperati. Mai spariti del tutto, i bonus milionari ai manager tornano, più alti di prima soprattutto dopo che i prestiti erogati dal Tesoro alle banche vengono integralmente restituiti. Sul groppone dei contribuenti rimangono però quasi 4mila miliardi di debito pubblico aggiuntivo su cui andranno pagati interessi che tolgono e toglieranno risorse altri tipi di spesa, welfare compreso. Proprio mentre la trama del tessuto sociale viene allargata dall’aumento delle distanze tra ricchi e classe media. La ricchezza pro capite degli Usa è oggi superiore del 10% al 2008, ma all’interno di questa media la crisi ha scavato differenze sempre più marcate.

Quando i prezzi delle abitazioni crollano, in un’economia con alti livelli di indebitamento privato, l’effetto è quello di un immediato aumento delle diseguaglianze poiché le famiglie a basso reddito sono le prime ad essere colpite e a perdere gli immobili. L’investimento nel mattone è infatti,spesso l’unico asset nei bilanci delle famiglie meno facoltose mentre quelle più ricche, oltre ad avere meno debito, possiedono anche prodotti finanziari come azioni o obbligazioni. Nei mesi peggiori della crisi il valore delle abitazioni statunitensi diminuisce di 5mila e 500 miliardi di dollari e tra il 2006 e il 2009 i prezzi scendono in media del 30%. Le rate dei mutui diventano insostenibili, le case vengono restituite alle banche, le banche le rimettono sul mercato, tante case in vendita tutte insieme riducono ulteriormente i prezzi e il circolo si fa sempre più vizioso.

Unico sollievo per molte famiglie è la possibilità che esiste negli Usa di liberarsi degli impegni con la banca “consegnando le chiavi” dell’abitazione, anche se nel frattempo il suo valore si è ridotto. Tra il 2007 e il 2010 la ricchezza media delle famiglie meno abbienti passa da 30mila a zero dollari. Quella delle famiglie più ricche si riduce da 3,2 a 2,9 milioni, non poco in termini assoluti ma un valore irrisorio in termini percentuali. Così se nel 2007 il 10% più ricco degli americani possedeva il 71% della ricchezza, nel 2010 questa quota raggiunge il 74%. Secondo diversi osservatori le politiche monetarie ultraespansive avviate in questi anni dalle banche centrali hanno poi contribuito ad accrescere ulteriormente questo divario. Comprando titoli e stampando moneta si spingono i valori di prodotti finanziari solitamente in mano alle famiglie più ricche. Un recente studio della Banca centrale europea ha contestato questa visione. Abbassando i tassi sui mutui, spingendo i prezzi delle case e favorendo occupazione e salari il Quantitative easing avrebbe infatti prodotto una diminuzione delle diseguaglianze. La questione non è forse così cruciale se è vero, come nota Branko Milanovic, uno dei più attenti osservatori delle dinamiche della distribuzione della ricchezza, che la crisi finanziaria provocò “solo” un’accelerazione di una tendenza alla polarizzazione delle ricchezze in atto da anni e fondamentalmente riconducibile alla globalizzazione.

Paradossalmente la crisi finanziaria nasce anche dall’idea di potere in qualche modo supportare con il debito il potere di acquisto della classe media che si stava via via erodendo. Non si guadagna abbastanza, ma farsi prestare i soldi diventa più facile. Tra il 2000 e il 2007 l’ammontare complessivo dei debiti delle famiglie statunitensi raddoppia e raggiunge i 14mila miliardi di dollari. Come è possibile? Grazie alle innovazioni finanziarie che sono andate accumulandosi sin dagli anni ‘80. Il teorema che sorregge tutto il sistema è che distribuendo il rischio di un investimento tra quanti più soggetti possibili, si riesca a neutralizzarlo. La banca eroga un mutuo e lo rivende ad una società si finanzia emettendo obbligazioni. La banca ha guadagnato sulle commissioni e sulla vendita e si libera del rischio di insolvenza del mutuatario. La società che ha acquistato il mutuo lo “impacchetta” insieme a tanti altri perché è improbabile che tutti i tipi di case, situate in zone diverse del Paese, perdano valore insieme e contemporaneamente, cosa che invece accadrà. Con le rate dei mutuatari paga gli interessi sulle obbligazioni che ha emesso. Così parte del rischio passa a chi ha comprato queste obbligazioni (spesso fondi pensione). Questi titoli possono essere assicurati con delle polizze che si chiamano “credit default swap”. In questo modo un’altra quota del rischio passa agli assicuratori. Ad ogni passaggio qualcuno ci guadagna. La realtà è che rischiano tutti, ma l’illusione ottica è che non rischi nessuno. Si arriverà così ad erogare prestiti praticamente a chiunque, come nel caso dei mutui “Ninja”, acronimo di no income, no job or asset, concessi a persone senza lavoro, redditi o altre proprietà. E si arriverà a truffe vere e proprie. Secondo una ricostruzione degli economisti John Griffin e Gonzalo Maturana, il 48% dei mutui concessi conteneva una qualche irregolarità, per lo più riguardante le reali condizioni di chi otteneva il prestito.

La lezione del 2008 è stata severa ma sembra avere insegnato poco. Il debito privato a livello globale è cresciuto ancora e oggi ammonta a 250mila miliardi di dollari. Le banche sono soggette a regole più stringenti e sono state obbligate a rafforzare la loro struttura patrimoniale. I rating sono più severi, le obbligazioni giudicate poco sicure sono oggi il doppio rispetto a dieci anni fa. Ma il rischio si è solo spostato in capo ad altri soggetti. Meno concentrato nelle banche e più nelle società di gestione del risparmio, migrato in parte in quell’immenso circuito ombra denominato “shadow banking” che vale oggi almeno 54mila miliardi di dollari. Nulla di “losco” a dispetto del nome. Si tratta di tutti quei soggetti (fondi monetari, finanziarie di agglomerati industriali, etc) che a vario titolo operano nei circuiti finanziari senza essere però soggetti a regole e obblighi di requisiti patrimoniali che si applicano invece alle banche tradizionali.

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