All’inizio di quest’anno la Commissione europea ha lanciato un ambizioso piano d’azione per l’istruzione digitale. Partendo dalla giustissima premessa che “istruzione e formazione sono i migliori investimenti nel futuro dell’Europa” propone, per adeguare la formazione scolastica all’era digitale, di intervenire lungo tre linee di azione.

1. Migliorare l’utilizzo della tecnologia digitale per l’insegnamento e l’apprendimento;

2. Sviluppare le competenze e le capacità digitali pertinenti ai fini della trasformazione digitale;

3. Migliorare l’istruzione mediante un’analisi dei dati e una previsione migliori.

Nulla da dire sulla prima linea: è noto che un uso ben calibrato delle tecnologie digitali può migliorare sia l’insegnamento che l’apprendimento. Certo, le difficoltà sono tutte nella buona calibrazione, ma confido che la nuova direzione politica del Miur e l’esperienza della nostra classe docente (tra le migliori al mondo) saranno in grado di indicare e trovare le giuste soluzioni. Anche la terza è estremamente valida: viviamo nell’era dei dati, che raccogliamo a tutti i livelli. Se ben analizzati ci possono dire molto sulla situazione attuale, a un livello di granularità mai raggiunto prima. Anche qui il diavolo è nelle minuzie realizzative: da un lato la garanzia di privacy verso le persone, dall’altro la consapevolezza che tra ciò che misuro e la realtà c’è una distanza che non va mai dimenticata. I generali che hanno confuso la mappa con il territorio non hanno mai brillato nelle campagne militari.

Vorrei spendere qualche parola sulla seconda linea, perché per la sua attuazione – oltre a misure di accompagnamento relative alla sensibilizzazione, comunicazione e riduzione del divario di genere (tutte importantissime) – l’azione concreta che viene proposta è quella di “introdurre classi di programmazione in tutte le scuole”. Qui con “programmazione” si intende “programmazione informatica”, ovvero ciò che gli inglesi chiamano coding, termine che ormai anche in Italia gode di una certa notorietà. Ho già scritto (qui e qui) sul perché non ritengo saggio usare il termine inglese, ma nel resto di quest’articolo lo userò per brevità espositiva.

La mia tesi di fondo è che questa impostazione della Commissione europea, centrata sull’insegnamento del coding invece che sull’insegnamento dell’informatica è riduttiva. Contrappongo l’insegnamento del coding a quello dell’informatica perché insegnare il coding vuol dire (per fare un paragone con l’ingegneria) insegnare a costruire un ponte, mentre insegnare l’informatica vuol dire insegnare a progettare e costruire il ponte. Progettare significa operare in uno spazio di necessità e di vincoli e “creare” la soluzione inventando la sintesi tra esigenze contrastanti. Questo richiede un bagaglio di conoscenze che vanno al di là di quelle usate per costruire.

Essendo un ingegnere di formazione, so bene di cosa parlo. Due anni dei miei studi universitari li ho passati su libri di matematica, fisica, chimica e altre materie fondazionali, che non avevano alcuna diretta applicazione alla costruzione di un qualunque manufatto complesso. Un medico o un avvocato potranno sicuramente confermare che la differenza tra l’operatore e il progettista è tutta nella larghezza e profondità della sua formazione di base. Costruire significa seguire un piano più o meno definito che qualcun altro ha creato. Non è richiesto di sapere molto al di là di questo, perché ci pensa (o ci ha pensato o ci penserà) qualcun altro. Parlare solo di “insegnare il coding” è quindi un approccio riduttivo, perché si focalizza solo sulla parte finale e operativa di un processo progettuale molto più complesso. Significa addestrare una manodopera tecnicamente sofisticata, ma che sarà comunque una classe operaia sottoposta alle direttive di chi decide cosa costruire, per chi farlo e quando.

Noto di passaggio (perché entreremmo in una sfera politica e sociale che va certamente considerata, ma non in questa sede) che la storia (ora più che mai magistra vitae) ha evidenziato come i livelli base della manovalanza sono i primi che vengono sostituiti dalle macchine. Se vogliamo quindi che i nostri giovani acquisiscano competenze utili per tutto l’arco della loro vita, è bene formarli a competenze da progettisti e non solo da esecutori. Per far sì che ragazzi e ragazze abbiano possibilità di scegliere una strada per loro soddisfacente nella società digitale, in un contesto lavorativo in continua evoluzione, vanno quindi esposte da subito le idee scientifiche alla base del digitale, in modo che ne capiscano la valenza complessiva.

Aggiungo che insegnare informatica nella scuola, a partire dalla primaria, è importante per la formazione di ogni cittadino, anche se deciderà di fare il medico o l’avvocato, il musicista o lo scrittore. La società digitale è qui: ignorare nella scuola la scienza alla base dei suoi meccanismi sarebbe come raccontare che i bambini nascono sotto i cavoli, la peste è trasmessa dagli untori e le pietre si muovono per horror vacui. Lo sviluppo digitale dell’Europa richiede di percorrere questa strada, che stanno già seguendo nel Regno Unito. Questa è la tendenza in molti Paesi avanzati, sia a oriente che a occidente, questo è quello che abbiamo proposto come associazioni europee di informatici. Il dialogo con i lettori interessati proseguirà, trascorso il tempo qui disponibile per i commenti, su questo blog interdisciplinare.

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