Il 12 settembre un giudice egiziano ha prorogato di altri 15 giorni la detenzione dell’attivista Amal Fathy. Amal è già sotto processo per i contenuti e i commenti di un video pubblicato su Facebook.
Nel video, l’attivista aveva denunciato la diffusione delle molestie sessuali in Egitto e aveva criticato l’incapacità del governo di proteggere le donne dalla violenza di genere. Nei 12 minuti della sua durata, non c’era la minima apologia della violenza né istigazione a compiere atti violenti.
Nell’ambito di una seconda inchiesta, Amal deve rispondere di accuse tanto gravi quanto pretestuose: “adesione a un gruppo terrorista”, “diffusione di notizie false e dicerie per danneggiare la sicurezza pubblica e gli interessi nazionali” e “uso di Internet per istigare a compiere atti di terrorismo”.
Amal, oltre ad essere un’attivista per i diritti delle donne, è la moglie di Mohamed Lotfy, già ricercatore di Amnesty International e attualmente direttore della Commissione egiziana per i Diritti e le Libertà, l’organizzazione per i Diritti umani che fornisce consulenza legale alla famiglia Regeni e che per questo ha subito intimidazioni e arresti di suoi esponenti. Secondo Amnesty International, Amal è una prigioniera di coscienza. Le accuse nei suoi confronti sono ridicole e infondate.
La sua prolungata detenzione preventiva e la doppia persecuzione giudiziaria nei suoi confronti rappresentano un ulteriore tentativo di colpire un’attivista ma anche, attraverso di lei, coloro che in Egitto cercano di contribuire al raggiungimento della verità per Giulio Regeni. Ricordiamo che venerdì scorso è trascorso un anno dal ripristino di normali relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto sancito dal ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo.
A un anno di distanza, purtroppo, le indagini non hanno visto nessuno sviluppo significativo. Il materiale messo a disposizione – con grave ritardo – da parte della procura del Cairo alla procura di Roma non ha infatti consentito di identificare alcun elemento utile alle indagini, con la conseguenza che dopo due anni e mezzo non è stato compiuto nessun progresso.
L’immagine in evidenza è tratta dal profilo Twitter di Amnesty Italia