Sono stata due volte a visitare quella struttura, dove la maternità è vissuta dietro le sbarre e dove i bambini, piccoli reclusi senza colpa, possono stare fino ai tre anni di vita. E’ un luogo stonato, senza sogni, senza disegni, senza aria, senza lunghezze. Le distanze e gli spazi sono talmente ravvicinati che i piccoli diventano miopi perché l’occhio non viene stimolato a vedere a lungo raggio, oltre il muro di cinta. I figli di Rebibbia hanno accanto le loro madri, ma solo per i primi tre anni di vita. Poi, senza un parente che li prenda con sé, vanno in affido e vengono separati dall’unica persona che hanno visto per i primi tre anni di vita.

Cosa sia accaduto nella mente della donna che ha compiuto un gesto tanto atroce non sta a noi dirlo, saranno le indagini e le telecamere ad aiutare nella ricostruzione. Quel che è certo, è che nella miseria del carcere esiste una miseria ancora più grande, che prende il nome di sezione nido, dove i figli di Rebibbia soffrono delle malattie della reclusione ed evidentemente anche le loro madri.

Allora non servirà trovare un colpevole se non andremo oltre la sola colpa. Non andremo lontano se non saremo capaci di vedere un limite dietro al carcere per le madri e per i figli, una condanna ingiusta dietro il drastico taglio dei fondi per le attività integrative rivolte ai bambini reclusi e una sconfitta per tutti dietro un sistema incapace di cogliere i segnali di squilibrio e di mettere in protezione gli indifesi.

Eppure qualche alternativa ci sarebbe. Una di questa si chiama Icam, istituto per la custodia attenuata delle detenute madri che dovrebbe operare sul modello delle case famiglia protette come già sperimentato a Milano e Venezia. Sono previsti da una legge del 2011 che dispone la stipula di una convenzione con gli enti locali per la realizzazione degli Icam entro il 2014. La loro diffusione capillare potrebbe essere un primo piccolo passo per affrontare la dolorosa questione della maternità vissuta in carcere e dei figli di Rebibbia, reclusi senza colpa.

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