La Premio Nobel e premier de facto ha però difeso la decisione delle autorità birmane di condannare i due giornalisti della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo. Dura la replica di Amnesty: "E' uno scandaloso tentativo da parte di Aung San Suu Kyi di difendere l’indifendibile"
La Corte penale internazionale de L’Aja avvierà un’indagine preliminare sulle deportazioni di centinaia di migliaia di musulmani Rohingya dal Myanmar in Bangladesh. Lo ha annunciato il Procuratore Capo, Fatou Bensouda, che adesso dovrà raccogliere le prove per giustificare l’avvio di un’inchiesta completa. L’indagine arriva subito dopo l’ultima condanna da parte delle Nazioni Unite per ciò che sta succedendo nel paese ai danni della popolazione Rohingya: il livello di crudeltà usato “è difficile da immaginare, un totale disprezzo per la vita umana”, ha dichiarato l’investigatore Onu, Marzuki Darusman, che guida la missione di ricerca delle prove sulle violazioni commesse in Birmania, presentando un report di 444 pagine in cui si chiede di perseguire i vertici dell’esercito per genocidio.
Intervenendo oggi al World Economic Forum di Hanoi, la Premio Nobel e premier de facto, Aung San Suu Kyi, ha ammesso che il governo birmano avrebbe potuto gestire meglio la questione dei Rohingya: “Naturalmente ci sono dei modi in cui, col senno di poi, penso che la situazione avrebbe potuto essere gestita meglio“, si è limitata a dire. San Suu Kyi era stata duramente criticata dalla comunità internazionale e dall’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ràad al-Hussein, per non essere intervenuta nel merito di quella che le Nazioni Unite hanno definito una “vera e propria pulizia etnica“. Oltre 700mila musulmani Rohingya sono fuggiti dalla Birmania, a maggioranza buddista, a seguito di un’offensiva dell’esercito birmano lanciata in risposta ad attacchi contro posti di controllo alle frontiere da parte dei ribelli.
Nel suo intervento, Suu Kyi ha poi difeso la decisione delle autorità birmane di condannare i due giornalisti della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, per possesso di documenti della polizia durante le loro indagini sulle violenze contro i Rohingya. I due, ha detto la Bbc online riportando le parole della Premio Nobel, hanno violato la legge e la loro condanna “non ha nulla a che fare con la libertà di espressione“. Parole che le hanno scatenato contro anche l’indignazione di Amnesty International che ha parlato di uno “scandaloso tentativo da parte di Aung San Suu Kyi di difendere l’indifendibile”. Phil Robertson, vice direttore per l’Asia di Human Rights Watch, ha affermato che la Premio Nobel per la pace ignora il fatto che la sentenza non ha risposto ad alcuni requisiti indispensabili per essere considerata conforme a uno stato di diritto, tra i quali “il rispetto delle prove” e “l’indipendenza della magistratura”.
I giudici hanno riconosciuto i due reporter colpevoli di possesso illegale di documenti riservati, ma gli imputati dicono di essere stati incastrati dalla polizia. I due sono stati arrestati lo scorso dicembre mentre svolgevano un’inchiesta proprio sul massacro della popolazione Rohingya. Michelle Bachelet, Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani da inizio mese ed ex presidente cilena, si è detta “scioccata” e ha definito la sentenza “una parodia della giustizia”. Queste circostanze alimentano, di fatto, i dubbi sulla transizione democratica che avrebbe avuto inizio nel 2016, con l’instaurazione del governo guidato da Suu Kyi. Anche se le forze militari, che hanno controllato la Birmania per oltre cinquant’anni sotto un regime dittatoriale, continuano a controllare diversi ministeri chiave.