Serve un capro espiatorio, serve la testa di qualcuno. E quindi il Ministero della Giustizia ha sospeso la direttrice del carcere di Rebibbia femminile Ida Del Grosso, la vicedirettrice Gabriella Pedote e la vicecomandante di polizia penitenziaria Antonella Proietti. L’Italia, giustamente sconvolta dalla tragedia che si è consumata ieri in quel carcere, penserà che dunque la colpa era la loro, guarderà con disonore le tre persone sospese dal servizio, avrà qualcuno contro cui dirigere la propria rabbia e le proprie accuse.
Tutti contenti? No. Cosa c’entrano Ida Del Grosso, Gabriella Pedote e Antonella Proietti con quanto è accaduto? Cosa mai potevano fare per prevederlo e impedirlo? Se io dirigessi un carcere con 350 detenute, avrei solo un modo per essere certa che mai accadrà nell’istituto qualche evento che finirà sui telegiornali: tenere tutte le detenute chiuse in celle singole (si può sempre aggredire la compagna di detenzione), nude (ci si può impiccare anche con un calzino), legate al letto (si può sempre sbattere la testa al muro), sorvegliate a vista. Così probabilmente sì, potrei dormire sonni tranquilli. Ma è questo il modello di pena che vogliamo?
Ho sentito dire che ci voleva maggiore controllo. Per spingere una carrozzina giù dalle scale bastano due secondi. Come può chi dirige un carcere limitare la libertà interna delle persone detenute al punto da togliere loro fino a due secondi? Non credo che il punto sia quello di togliere i due secondi. Credo piuttosto che sia quello di togliere alle persone l’impulso a usare quei due secondi come li ha usati la donna che ha spinto i suoi bambini giù dalle scale. E, a parità di norme e di loro interpretazione, posto che quella donna si trovava in carcere con i suoi due figli e non erano certo state le operatrici dell’istituto a mandarcela, il nido di Rebibbia femminile, per come è gestito, dà il massimo per tentare di fare proprio questo. Dopodiché ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la nostra filosofia. L’animo umano è vasto e complesso. Neanche il più bravo tra gli psichiatri avrebbe mai potuto immaginare quel gesto. Come avrebbe potuto farlo la direttrice Ida Del Grosso?
Il carcere di Rebibbia femminile è gestito con intelligenza e con grande vicinanza alle persone recluse. Non è un’istituzione distante, anonima, dove le richieste rimbombano nel vuoto del silenzio e le persone si sentono abbandonate a se stesse. È un luogo caldo, prossimo, capace di ascoltare. La direttrice scendeva nei reparti, girava tra le celle, ricordava a mente le singole storie delle singole donne e aveva un’attenzione per ciascuna. Lo stesso la vicedirettrice. Due bravissime persone che in questi anni abbiamo visto lavorare al meglio. Non conosco personalmente la vicecomandante ma sono certa di poter usare anche per lei le stesse parole. Un carcere è una comunità: senza il gioco di squadra non si ottengono risultati.
Eppure tre teste sono cadute. Esemplarmente, simbolicamente, inutilmente, dolorosamente. Prima ancora dell’indagine, prima ancora di accertare qualsiasi verità. Sventurata la terra che ha bisogno di capri espiatori.