Nei reparti speciali i figli vivono con le madri che stanno scontando la pena. In uno di questi, a Rebibbia, una straniera ha ucciso i suoi due bambini scaraventandoli dalle scale. Ma secondo il Garante dei detenuti e l'associazione Antigone le "celle-nido" dovrebbero essere "l'ultima soluzione". Prima ce ne sono altre. Ma tra coperture finanziarie e carenza di strutture si stenta ad applicare la legge
“Dalla carenza di strutture di case famiglia protette”, che esistono ma in numero limitatissimo quando dovrebbero essere “la soluzione prioritaria”, alle comunità locali che “spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio”. E c’è anche la difficoltà di seguire “una legge – quella del 2011 che regola e tutela il rapporto tra madri detenute e figli e prevede anche gli Istituti di custodia attenuata – che ha ormai sette anni e che stenta ad essere applicata nei suoi aspetti più significativi”. Tanto che si ricorre alle “celle nido”, reparti speciali all’interno delle carceri dove i bambini – di fatto “detenuti” – possono vivere con la madre. In un luogo come questo alle 12 del 18 settembre una donna di origine tedesca di 31 anni, detenuta a Rebibbia per traffico di sostanze stupefacenti, ha scaraventato i suoi due figli dalla tromba delle scale della sezione nido. La bambina di pochi mesi è morta sul colpo, mentre il bimbo di poco più di due anni è stato dichiarato clinicamente morto all’ospedale Bambino Gesù. “Adesso sono liberi”, ha detto la donna al suo avvocato.
Quella delle sezioni nido “dovrebbe essere l’ultima soluzione a cui ricorrere per le madri e i loro bambini”, spiega Maurizio Palma, Garante nazionale dei detenuti a ilfattoquotidiano.it. Se secondo l’ordinamento penitenziario del 1975 le donne che manifestano tale volontà, possono portare con sé in carcere i figli fino al terzo anno di vita, questa soluzione, a detta degli operatori del settore, non è la migliore. “La prima è quella delle Case famiglia protette – previste dalla legge n.62 2011 – ma in Italia ne esistono solo due”, una a Milano e una a Roma. In seconda battuta ci sono gli Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri, “reparti detentivi fuori dalla mura carcerarie. Formalmente luoghi di detenzione ma senza le sbarre”. Solo in ultima istanza si dovrebbe ricorrere alle sezioni nido, luoghi all’interno delle carceri dedicati al nucleo donna-bambino.
Bambini in carcere: i numeri – Ma quanti sono i minori che vivono con le madri detenute? Al 31 agosto, secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Ministero della Giustizia, dietro le sbarre con i loro figli ci sono 52 madri con al seguito 62 minori. Poi diventati 60. “Di questi, una trentina sono negli Icam. Degli agli altri 30, solo la metà sono a Rebibbia. La restante parte sono dislocati in diversi istituti italiani”, racconta Palma.
Su un totale di 58.163 detenuti presenti nelle carceri italiane, le donne sono 2.402, pari al 4,12% della popolazione carceraria. In Italia gli istituti esclusivamente femminili sono appena 5 (Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”). Poi esistono tantissime sezioni femminili ospitate in carceri maschili, 52 in tutto. Tra le diverse sezioni nido, quella di Roma, dove sono morti i due fratellini, è la più grande. La “Germana Stefanini” di Rebibbia al 31 agosto 2018 ospitava 16 bambini e 13 madri. Nell’ultimo rapporto Antigone si legge che proprio qui la criticità segnalata è quella della “mancanza di mediatori culturali per straniere, soprattutto per quelle con problemi psichiatrici”. Per Palma “la sezione nido di Rebibbia, paragonata ad altre è avanti anni luce: un luogo in cui c’è attenzione e cura per il nucleo madre-figlio. Ma i problemi di tipo generale si riflettono anche su questo reparto. La scarsità di operatori psichiatrici, di mediatori culturali, di personale penitenziario, è ovunque”. Ma un dato per Rebibbia è certo: se altrove i numeri delle madri sono troppo bassi per aprire un Icam, “nel Lazio questi numeri ci sono”. Oggi in tutta Italia esistono solo 5 Icam: sono Torino “Lorusso e Cutugno” con 7 donne e 10 bambini, Milano “San Vittore”, 4 madri e 4 figli, Venezia “Giudecca” 5 detenute e 6 minori, Lauro, 10 madri per 12 figli e Cagliari dove non ci sono persone. A questi numeri vanno contrapposti gli 8 posti disponibili della casa di Leda di Roma, dei quali sono occupati solo 6. E alle 4 madri accolte dall’associazione C.i.a.o di Milano, su una capienza di 6.
Antigone: “Il problema è la mancanza di volontà politica” – Se gli Icam sono una soluzione intermedia, “il carcere dovrebbe essere veramente la soluzione estrema”. Ricordando che “il bisogno e il diritto di un bambino che deve evolvere e sviluppare la sua vita deve essere prevalente anche alle nostre esigenze di punizione rispetto al genitore”, la risposta migliore a tale esigenza è quella delle Case famiglia protette, “una soluzione che impegna anche le comunità locali”, fa notare Palma. E infatti il punto “spesso è politico” sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone. Il fenomeno dei bambini in carcere “è abbastanza residuale se si guarda ai numeri”. Ci sono solo queste 52 madri, le altre “evidentemente non vogliono che i loro bambini stiano in carcere o che hanno migliori possibilità di crescita all’esterno nella rete familiare”. Al netto del fatto che a volte, invece, interrompere il rapporto madre-figlio, pur dietro le sbarre, è una decisione controproducente, o che le realtà familiari spesso sono peggiori.
“Purtroppo – continua Marietti – con questi numeri così bassi, oltre delle cicliche polemiche sullo scandalo dei bambini in carcere, il tema non si pone e finisce sempre su un binario morto. Ci vorrebbe una pura volontà politica e la possibilità di affrontare singolarmente i casi che sono tanto diversi tra loro”. Nella legge del 2011 – che viene dopo la legge “legge 8 marzo” del 2001 in cui si istituiva la detenzione domiciliare speciale – tra le altre cose, si apriva alle Case famiglie protette. Un’esigenza nata dal fatto che spesso le donne con prole erano straniere o senza dimora, ad esempio le Rom, e per queste i domiciliari non erano prevedibili. “Il punto è che invece di dare una copertura finanziaria per questi istituti, si demanda l’onere agli enti locali sia per la costituzione sia per il mantenimento. Ed è per questo che ce ne sono così pochi”, chiarisce Marietti.
Insomma, “le leggi ci sono e vanno bene”, ma vengono applicate al ribasso. Senza contare che “le comunità locali spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio, così si antepongono le necessarie esigenze di giustizia a quelle della tutela del bambino”, sottolinea Palma ricordando come per la Casa di Leda di Roma- edificio sequestrato alla mafia – “ci furono delle firme per evitarne la presenza”. Un “equilibrio difficile” tra diritto del bambino, sicurezza della società ed esecuzione della pena per la madre. Insomma, a “guardare i fatti di cronaca risulta difficile assegnare colpe univoche”, avverte Alessio Scandurra coordinatore scientifico dell’osservatorio Antigone, mentre è “troppo facile puntare il dito contro l’istituto penitenziario, quando le cose sono più complesse”.
Per il Garante nazionale dei detenuti, la tragedia di Rebibbia richiama a una “responsabilità collettiva”, dove l’opinione pubblica “volge il suo sguardo al carcere solo in occasione di tragedie e non anche ai molti aspetti di cura e tutela che vi si svolgono ogni giorno”. “Certamente – dice Palma in riferimento ai primi provvedimenti presi dal ministro della giustizia che ha sospeso i vertici della sezione femminile – pur astenendomi da giudizi, la responsabilità non è del punto terminale di chi si trova a dirimere tale intrico di conflitti e di problema aperti e che, nel caso della Direzione dell’Istituto femminile di Roma, lo ha sempre fatto con la massima attenzione a tutte le diverse esigenze”.