di Maurizio Donini
Sul nuovo numero di FQ Millennium, di cui possiedo la collezione completa, il servizio centrale è l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Il risultato è che le due linee spesso non si incontrano, questo può apparire a prima vista incomprensibile in un paese afflitto da una forte disoccupazione soprattutto giovanile, ma un’analisi più attenta dimostra la fondatezza del problema. Le aziende chiedono attitudini specifiche cui il mercato del lavoro non riesce a dare risposte, le professioni più richieste sono quelle ingegneristiche, in particolare in campo informatico, ed i medici. L’Italia continua a produrre miriadi di diplomati e laureati in discipline umanistiche, abbiamo un parco avvocati doppio rispetto alla Francia e triplo al Regno Unito, sicuramente la tipologia legislativa bizantina che produce il Parlamento italiano abbisogna di molti addetti, ma alla fine un grande numero dei laureati va semplicemente ad ingrossare le postazioni dei call-center.
Il problema più importante è dato dal sistema scuola, tutti i governi succedutisi hanno varato riforme disastrose che hanno sortito più danni che altro, con la sola, felice, eccezione degli Istituti tecnici superiori. Se gli ITS producono almeno l’82% di occupati alla fine del ciclo scolastico, è anche vero che parliamo di una tipologia culturale ben lontana dagli studi universitari. Un sistema universitario che svetta per costo delle tasse, ponendoci al terzo posto in Europa, ma producendo pochi laureati, in media 5/7 punti sotto la media europea. L’anno scorso, ad un importante convegno Nomisma, mi trovai a tavola con il CEO della Danieli, che mi confidava con dolore di avere dovuto assumere 400 ingegneri in Croazia, non trovandoli in Italia. L’argomento lo ripresi intervistando l’ex premier Prodi ed il presidente di Confindustria Emilia Romagna, Alberto Vacchi, l’allarme che lanciarono fu la mancanza di mille periti in Regione. L’Italia è terzultima nella spesa per l’istruzione, sopravanzando solo Romania ed Irlanda ed investendo la metà della Germania nel settore, i risultati riflettono questo approccio limitato.
Il problema è tutt’altro che di semplice soluzione, per avere un ingegnere serve una programmazione decennale che diventa quindicennale nel caso dei medici, è un percorso lungo che va programmato con lungimiranza. La scuola deve indirizzare verso le professioni necessarie e richieste, sperando che in un mondo che viaggia a mille all’ora la situazione sia la medesima alla fine del ciclo di studi. Altrettanto dovrebbero fare le famiglie, indirizzando i propri figli verso percorsi che possano sfociare in una professione in linea con le aspettative del mercato. E’ vero che non si può ovviamente ‘violentare’ il sentimento della propria prole, ma i consigli e le linee giuste devono essere messi a disposizione delle generazioni future.
L’altro pilastro di un mercato del lavoro efficiente sono i centri per l’impiego, ma qui la situazione è kafkiana, semplicemente non hanno mai funzionato. La loro efficacia è a macchia di leopardo, ogni tentativo di portarli un coordinamento centrale ed integrarli nelle politiche di governance sono falliti di fronte alla riottosità delle regioni che rifiutano qualunque perdita di potere, salvo poi non riuscire ad attivarli positivamente. A peggiorare il tutto ci pensò poi la legge Delrio nell’ambito del processo di trasferimento dei Centri dalle Province (abolite) alle Regioni. Il risultato è che a fronte di una spesa di 600 milioni l’anno per 556 CPI, abbiamo gli oltre 11 miliardi della Germania, i 5 miliardi circa della Francia e gli 1,6 miliardi della Spagna. Appena il 3 per cento di disoccupati che si rivolge agli uffici di collocamento per trovare un lavoro riesce a trovare un impiego contro il 10% degli altri paesi Ue; 8mila operatori collocano mediamente circa 4 occupati in un anno occupandosi di 650 persone a testa contro i 60 che toccano ai loro omologhi francesi e tedeschi.
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