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Migranti, l’integrazione (e il contrasto alla propaganda) passa dal lavoro

di Luigi Manfra *

Come ho già avuto modo di osservare su questo blog, i dati sull’immigrazione reperibili sui quotidiani, sui social e sui siti sono spesso frammentari e a volte contraddittori, fornendo un’informazione che può essere utilizzata in maniera disinvolta per sostenere una tesi o anche il suo opposto di fronte all’opinione pubblica. Un esempio di questo fenomeno lo fornisce la recente campagna elettorale, dove il tema dell’immigrazione è rimasto al centro della battaglia politica grazie soprattutto alla Lega e a Matteo Salvini. Quest’ultimo, dopo la formazione del governo Conte, ha impostato la sua azione come ministro dell’Interno su un solo tema, il contenimento degli sbarchi sulle coste italiane, con risultati tutto sommato modesti.

L’effetto di questo bombardamento mediatico ha alimentato un’immagine distorta del fenomeno migratorio in Italia, che l’Istituto Cattaneo ha analizzato utilizzando i dati raccolti dall’Eurobarometro in merito alla presenza di immigrati in Europa. Il sondaggio ha preso in esame la percentuale di immigrati realmente presenti in ciascun paese europeo mettendola a confronto con la stima espressa dai cittadini.

I risultati dell’indagine demoscopica  dell’Istituto Cattaneo, e i dati reali forniti dall’Eurostat 2017, dimostrano come in Europa i cittadini sovrastimano nettamente la percentuale di immigrati presenti nei loro paesi. Le conclusioni sono infatti le seguenti: “Di fronte al 7,2% di immigrati non-UE presenti realmente negli Stati europei, gli intervistati ne stimano il 16,7%. […] gli intervistati italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco tra la percentuale di immigrati non-UE realmente presenti in Italia (7%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%”.

In cifra assoluta gli italiani pensano, dunque, che gli immigrati extracomunitari siano 15 milioni mentre in realtà sono all’incirca 4 milioni. Aggiungendo anche i 500mila irregolari, stimati da Salvini, ma che in realtà sono la metà, gli immigrati sono quindi meno di un terzo di quanto credono i nostri connazionali.

Le cause di questa enorme differenza tra realtà e percezione è soprattutto un effetto della campagna mediatica scatenata sui social e su alcuni giornali, ma a mio avviso dipende anche dalla presenza dei rifugiati nelle città che, soprattutto nelle periferie, vedono tanti giovani extracomunitari vagare senza lavoro. Perché, invece, non farli lavorare togliendoli dalle strade ed eliminando in tal modo uno degli aspetti su cui la campagna contro gli immigrati si fonda, e che la demagogia di Salvini utilizza a man bassa?

Il lavoro, infatti, è lo strumento migliore per l’integrazione dei richiedenti asilo, consente loro di interagire con i compagni di lavoro, di imparare la lingua e soprattutto di contribuire al loro sostentamento.

In Germania, ad esempio, nel maggio 2018, 306.574 immigrati provenienti dagli otto principali paesi di immigrazione avevano un lavoro regolare. Anche in Italia, in base all’Art. 22 del decreto legislativo del 18 agosto 2015 N°142, i richiedenti asilo possono lavorare trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda d’asilo. Se il procedimento di esame della domanda non è concluso e il ritardo non può essere attribuito al richiedente, questo può intraprendere un’attività di lavoro dipendente trascorsi questi due mesi. Sulla base di questo decreto sono 19.722 i lavoratori richiedenti asilo che al 31 marzo 2017 avevano un rapporto di lavoro attivo, instaurato nel periodo fra aprile 2011 e marzo 2017, secondo quanto ha affermato il sottosegretario Luigi Bobba rispondendo ad un interrogazione in commissione lavoro della Camera.  A tal fine basterebbe offrire più occasioni di lavoro – soprattutto da parte dei comuni, per lavori di pubblica utilità – per ottenere risultati positivi  sia per i cittadini che vedrebbero gli immigrati lavorare invece che elemosinare o vendere oggetti vari, sia per gli immigrati che con il lavoro acquisterebbero uno status più dignitoso.

Inoltre queste attività, regolarmente retribuite, consentirebbero di ridurre il costo che attualmente lo Stato sostiene per ciascun richiedente asilo. Ad esempio la metà del salario percepito potrebbe essere utilizzato per ridurre l’ammontare della somma attualmente sostenuta, pari a 35 euro giornalieri. Ipotizzando un salario medio di 800 euro, per ogni 10.000 richiedenti asilo al lavoro, si avrebbe un risparmio per lo Stato di circa 40 milioni di euro l’anno. Gli effetti di un tale programma, la cui implementazione non dovrebbe essere difficile, migliorerebbe l’aspetto delle città (basti pensare a Roma e al degrado in cui versa), toglierebbe dalla strada tanti giovani extracomunitari che sono fuggiti dai loro paesi affrontando mille pericoli e difficoltà per rifarsi una vita, ed infine eliminerebbe uno degli aspetti su cui la propaganda anti-immigrati si alimenta.

* Responsabile scientifico del Centro studi Unimed, già docente di Politica economica presso l’Università Sapienza di Roma