Il sequestro finalizzato alla confisca ordinato dal tribunale di Catania nei confronti dell'editore Mario Ciancio Sanfilippo fa tremare il mondo del giornalismo nel Mezzogiorno: sigilli anche alle tv Antenna Sicilia e Telecolor. Dopo un lunghissimo iter giudiziario, il potente imprenditore di Catania è finito a giudizio per concorso esterno nel 2017: è attualmente imputato. La replica: "Mio patrimonio frutto soltanto del mio lavoro". Fava: "Affidare la testata ai giornalisti"
Due tra i principali quotidiani del Sud Italia. Ma anche le principali televisioni siciliane. Il sequestro finalizzato alla confisca ordinato dal tribunale di Catania nei confronti dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo fa tremare il mondo del giornalismo nel Mezzogiorno. Perché a essere sequestrato è La Sicilia, il giornale di Catania molto letto anche nel resto della Sicilia. E poi le quote della Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Bari. Sigilli anche a due emittenti televisive: Antenna Sicilia e Telecolor. In totale il provvedimento eseguito dai carabinieri del Ros e del comando provinciale di Catania ha un valore di 150 milioni di euro. In serata l’87enne Ciancio ha fatto sapere di essersi dimesso dalla carica di direttore responsabile de La Sicilia mentre il figlio Domenico ha lasciato l’incarico di condirettore. L’assemblea dei soci della Domenico Sanfilippo editori ha nominato nuovo direttore Antonelo Piraneo, attuale caporedattore del quotidiano.
Ciancio: “Mio patrimonio frutto di lavoro”- A chiedere il sequestro è stata la Direzione distrettuale antimafia che ha messo i sigilli a conti correnti, polizze assicurative, 31 società, quote di partecipazione in altre sette società e beni immobili. E poi alla società Etis, che stampa quotidiani siciliani e nazionali, e la Simeto Docks, concessionaria di pubblicità e affissioni. Il sequestro è un procedimento che si sviluppa parallelamente al processo penale: Ciancio, infatti, è attualmente imputato per concorso esterno a Cosa nostra. “Nell’ambito del procedimento di prevenzione a mio carico ritenevo di avere dimostrato, attraverso i miei tecnici e i miei avvocati, che non ho mai avuto alcun tipo di rapporto con ambienti mafiosi e che il mio patrimonio è frutto soltanto del lavoro di chi mi ha preceduto e di chi ha collaborato con me. Ritengo che le motivazioni addotte dal Tribunale siano facilmente superabili da argomenti importanti di segno diametralmente opposto, di cui il collegio non ha tenuto conto”, è il commento dell’editore catanese. “I miei avvocati – aggiunge – sono già al lavoro per predisporre l’impugnazione in Corte di Appello. Sono certo che questa vicenda per me tristissima si concluderà con la dovuta affermazione della mia totale estraneità ai fatti che mi vengono contestati, come dimostra la mia storia personale, la mia pazienza e la mia ormai lunga vita nella città di Catania”.
La storia dell’inchiesta: 10 anni di indagini – Lunga e tormentata la storia giudiziaria dell’imprenditore, rinviato a giudizio arrivato nel 2017 dopo un lunghissimo iter giudiziario. La procura di Catania aveva aperto l’indagine a carico di Ciancio nel 2007, ma nel 2012 ne aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta bocciata dal gup Luigi Barone, che aveva disposto la trasmissione degli atti ai pm. Gli inquirenti avevano a quel punto chiesto il rinvio a giudizio dell’editore, raccogliendo il pollice verso da parte del gup Bernabò Distefano nel dicembre del 2015. Una decisione che aveva sollevato parecchie polemiche – con il presidente dell’ufficio gip di Catania, Nunzio Salpietro, che aveva preso le distanze dalla sentenza – visto che nelle sue motivazioni Distefano faceva a pezzi il reato di concorso esterno definito come “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Un giudizio completamente ribaltato dalla Suprema Corte, che ha accolto l’appello della procura contro il proscioglimento di Ciancio. Secondo gli ermellini “non si sorregge in alcun modo la conclusione della non configurabilità della fattispecie del concorso esterno nel reato associativo” che ha di principio “una funzione estensiva dell’ordinamento penale, che porta a coprire anche fatti altrimenti non punibili”. È per questo motivo che dodici mesi fa un nuovo gup – il terzo a occuparsi della vicenda Ciancio in dieci anni di indagini – ha ordinato il processo per l’editore catanese, ormai 86enne.
I 52 milioni trovati in Svizzera – Già nel 2015 nell’avviso di conclusione delle indagini la procura annotava di aver trovato cinquantadue milioni di euro depositati in Svizzera e non dichiarati in occasione dei precedenti scudi fiscali.“In quelli per i quali sono state sin qui ottenute le necessarie informazioni – spiegavano i pm – sono risultate depositate ingenti somme di denaro, 52.695.031 euro che non erano state dichiarate in occasione di precedenti scudi fiscali”. Davanti ai pm, Ciancio aveva provato a giustificare l’origine di quelle somme, ma la sua auto difesa non aveva convinto gli inquirenti, che anzi specificano come “la successiva indicazione da parte dell’indagato della provenienza delle somme, non documentata, abbia trovato smentita negli accertamenti condotti”. In pratica il principale editore del Sud Italia non è riuscito a giustificare la provenienza del tesoretto inviato Oltralpe. Già una prima richiesta di sequestro da parte della procura era stata respinta. Questa volta, invece, è arrivato il via libera.
Fava: “Affidare la testata ai giornalisti” – “Il sequestro del quotidiano La Sicilia nei confronti di Mario Ciancio deve diventare l’occasione per ribaltare la storia opaca di quel giornale e della sua direzione. Se vi sarà confisca, si affidi la testata ai giornalisti siciliani che in questi anni hanno cercato e raccontato le verità sulle collusioni e le protezioni del potere mafioso al prezzo della propria emarginazione professionale, del rischio, della solitudine”, commenta Claudio Fava, presidente della commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana. “Togliere oggi – aggiunge – non basta: occorre restituire ai siciliani il diritto a un’informazione libera, autonoma, coraggiosa. Lo pretende anche il rispetto dovuto agli otto colleghi uccisi dalla mafia e dai suoi innominabili protettori per aver difeso quel diritto contro ogni conformismo”.