Vari filosofi, da Benjamin a Foucault, da Elias a Derrida, hanno messo bene a fuoco come, nel corso della storia, la meccanica del potere abbia assunto a bersaglio il corpo, prima, per attivarne permanentemente la dissimmetria con quello del re, poi, per renderlo più potente e allo stesso tempo funzionale alla logica produttiva e disciplinare del moderno corpo sociale.
In via di rapidissima sintesi, per dirla con Elias (La solitudine del morente, 1998, p. 209), “Dopo l’anatomia-politica del corpo umano instaurata nel corso del Settecento, alla fine del secolo s’instaura si vede apparire qualcosa che non è più un’anatomia-politica del corpo umano, ma (…) una bio-politica della specie umana”. All’antica ritualità della morte, al suo valore altamente simbolico si è sostituita, insomma, la solitudine del morente della società occidentale moderna, quale oggettivazione visibile di un potere che, nel prendere in carico la totalità della vita degli individui, ne esalta al massimo la dimensione biologica, relegando ai margini la morte, intesa, per un verso, come inadeguata politica della vita e, per l’altro, come segno inquietante della sua ineluttabilità.
Breve, al vecchio potere di vita e di morte tipico dell’età dell’assolutismo, nella bio-politica della vita, viene a sostituirsi il nuovo potere di far vivere e lasciar morire, con riattivazione invertita della vecchia dissimmetria che presiedeva alle società di sovranità, nel senso che il potere di vita ha finito per prevalere sul potere di morte e quest’ultima per essere delegata, come extrema ratio, a un potere democratico contrattualmente fondato e a una pratica sociale che la rimuove, isola, ghettizza.
La statalizzazione della vita biologica degli individui, tipica del nuovo potere sulla vita e di cui sono manifestazioni sintomatiche significative le crociate contro la masturbazione dei bambini o quella sull’omosessualità, la nascita della demografia, quale articolato complesso di discorsi centrati sulla criticità del rapporto fra territorio, risorse e popolazione, e la nascita, altresì, dell’igiene pubblica, ambientale, sociale per la tutela e la salvaguardia degli individui, in quanto specie biologica definita dai confini di un territorio di cui costituisce lo spazio vitale, è all’origine di quel razzismo di Stato che, a partire dal secolo XIX, ha costituito la caratteristica dominante delle politiche interne, quali la segregazione delle popolazioni critiche, problematiche, pericolose, e internazionali, quali imperialismo, colonialismo, pulizia etnica, seguite dalla gran parte degli Stati europei.
Le politiche di igiene e sanità pubblica della Germania nazista, in cui questo processo è tragicamente precipitato, sono quelle in cui con più evidenza si è manifestata la statalizzazione biologica della vita, determinando le apparizioni storiche di un’ideologia della razza fondata sull’estensione delle teorie evoluzioniste di Darwin e di Lamarke dal campo biologico a quello sociale, con l’emersione di campi discorsivi tematizzati in una pluralità di discipline, quali lotta delle razze, selezione naturale, spazio vitale, difesa dell’integrità etnica. Vicende note, queste ultime, sulle quali Foucault tornò a riflettere nelle lezioni al Collège de France del 1976, per esorcizzarne il ritorno sia pure secondo modalità di effettualizzazione inedite nelle forme del loro manifestarsi, ma antiche in riferimento a un diagramma dei poteri e dei saperi legittimanti, ieri, la guerra delle razze e, oggi, la strategia della guerra preventiva: dall’Iran ai Balcani, dal Kosovo all’Afghanistan all’Iraq.
Poiché queste e le ulteriori guerre alle quali stiamo tutt’ora assistendo esprimono la logica di un potere che fonda la propria legittimità non solo sul controllo delle risorse fondamentali del pianeta, quali i giacimenti petroliferi, ma anche sulla pretesa di dover garantire preventivamente la vita biologica di una parte dell’umanità, surrettiziamente assunta come totalità di essa, costituendo gli altri, i diversi, gli esclusi, una minaccia permanente per la sopravvivenza della specie egemone, è affatto evidente che la totale presa in carico della vita, nella struttura logica del bio-potere nel mondo globalizzato, si risolve paradossalmente nel suo contrario: la distruzione biologica della vita. Aporia questa che ha imposto la riarticolazione del campo di potere-sapere da cui la bio-politica era emersa. E il mutamento di paradigma passa per la costruzione sociale di una nuova alterità, un altro diverso non in relazione alla razza o alla specie, ma al tasso di devianza di un modello culturale, i cui fluidi confini sono ridefiniti, di volta in volta, in funzione delle variabili esigenze produttive, economiche, sociali, delle popolazioni da far vivere.
Il discrimine fra le popolazioni da lasciar vivere e quelle da lasciar morire, nel razzismo postmoderno, diversamente che nel razzismo moderno, non è prestabilito biologicamente, bensì costruito socialmente, mediante lo strumento normativo, sia a livello di organismi internazionali, quali l’Onu e l’Ue, allorché stabiliscono, attraverso le loro risoluzioni a chi, come e quando debba essere riconosciuto lo status di profugo o di rifugiato politico; sia a livello degli Stati, quando determinano soglie, modalità, criteri di accesso, soggiorno, permanenza. Per dirla con Ardt e Negri (Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, 2002) il nuovo razzismo è, ormai, “un razzismo differenziale, un razzismo senza razza (…) dato che la biologia è stata abbandonata nella sua funzione di fondamento e di supporto”, là dove, invece, è la cultura a essersi a essa sostituita nel ruolo che giocava in precedenza. D’altra parte, solo apparentemente la teoria del razzismo come differenza socio-culturale è meno essenzialista di quella biologica, dal momento che essa pone, comunque, al di là dell’apparenza, una barriera altrettanto insormontabile al dispiegamento di democrazia universalmente inclusiva.
Bauman, uno dei più importanti studiosi della globalizzazione, nell’affrontare il problema delle migrazioni, sia sul piano della sua ricorrenza storica sia nella prospettiva di una sua determinazione contemporanea, scrive che “da sempre le terre di frontiera sono considerate al contempo fabbriche di sfollati e impianti di riciclaggio per profughi. E nulla di diverso possiamo attenderci dalla loro nuova varietà globale, se non ovviamente una nuova scala planetaria dei problemi di produzione e riciclaggio” e, ancora “disseminati in tutto il globo, ecco i ‘presidi della extraterritorialità‘, le discariche per i rifiuti non smaltiti e ancora non riciclati dalla terra di frontiera globale” (Amore liquido, 2004, p. 187 s.).
Non è privo di significato il fatto che la logica del trattamento differenziale dei rifiuti sembra presiedere anche quella del trattamento differenziale che il razzismo postmoderno opera nei confronti dei migranti: da una parte i riciclati, tramite permessi di soggiorno, lavoro legalizzato, diritti limitati, dall’altra gli smaltiti, condannati al lavoro nero e allo sfruttamento brutale, ma anche concentrati in campi di permanenza. È così che il razzismo postmoderno dell’impero, dissolte le identità rigide della precedente accezione biologicistica in una fluida e amorfa moltitudine, può gestire la complessa trama delle microconflittualità che sorgono di continuo dall’espansione del suo dominio.