di Angelantonio Viscione

Stimolare la domanda e gli investimenti non sempre garantisce una crescita stabile del sistema economico. Lucarelli e Romano in Squilibrio si servono dei preziosi contributi della teoria economica critica per spiegare la complessa dinamica dello sviluppo capitalistico e individuare il ruolo dello Stato nei cambiamenti strutturali dell’economia.

A dieci anni dallo scoppio della grande crisi un numero sempre maggiore di economisti e istituzioni sembra finalmente riscoprire il ruolo dello Stato in economia. Le evidenze empiriche raccolte negli anni recenti hanno infatti contribuito a far affermare sempre di più la tesi per cui l’intervento pubblico sia necessario almeno a governare le fluttuazioni cicliche di breve periodo delle componenti private della domanda aggregata. In altre parole, si riconosce sempre di più che nelle moderne economie capitalistiche i consumi e gli investimenti privati sono per natura instabili e, dunque, quando il settore privato comincia a risparmiare più di quello che spende, tocca allo Stato rilanciare l’economia aumentando la sua spesa in deficit*.

Lo Stato moderno non può però limitarsi solo a questo. Il momento storico non aiuta il dibattito prevalente ad andare oltre la semplice dicotomia austerità – politica espansiva, ma i sostenitori della linea interventista corrono il rischio di trascurare il ruolo centrale che riveste nell’economia anche la composizione qualitativa degli investimenti. Non si tratta di un elemento marginale e laterale della politica economica: stimolare indiscriminatamente il livello degli investimenti non è sufficiente a garantire una crescita stabile.

Si pensi proprio all’Italia. Prima della crisi economica, nell’arco temporale che va dal 1992 al 2008, l’Italia è uno dei pochi Paesi europei che conosce una crescita nella quota investimenti in macchinari sul Pil ma, allo stesso tempo, conosce un ristagno della quota di spesa del sistema produttivo in ricerca e sviluppo (R&S) sul Pil (Lucarelli et al. 2013). Al contrario, nello stesso periodo, la tendenza generale in Europa è quella di un calo della quota investimenti in macchinari sul Pil ma di una crescita della quota di spesa del sistema produttivo in R&S sul Pil. In altre parole, mentre la specializzazione produttiva delle altre economie europee si spostava progressivamente su settori innovativi a più elevata intensità di ricerca, quella italiana si allontanava sempre di più dalla frontiera tecnologica.

Senza produzione domestica di beni innovativi, l’economia italiana è diventata sempre più dipendente dalla loro importazione, vittima di un vincolo estero di natura tecnologica che, di fatto, ne ha minato le prospettive di sviluppo. Prima dello scoppio della crisi, l’Italia ha trascurato questo elemento e oggi si trova a fare i conti sia con un congiunturale insufficiente livello di investimenti e sia con una loro inadeguata composizione qualitativa di carattere strutturale. In questo senso, la composizione qualitativa degli investimenti è importante tanto quanto le misure di stimolo alla loro crescita.

La teoria economica mainstream non aiuta a comprendere fino in fondo queste dinamiche: in un sistema economico che tende naturalmente verso l’equilibrio, il sistema dei prezzi conduce automaticamente alla migliore allocazione delle risorse (…)

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@AngelantonioVis

* Il dibattito riguarda soprattutto gli economisti mainstream, divisi tra favorevoli e contrari all’espansione del deficit pubblico per affrontare la crisi economica. Gli economisti eterodossi, al contrario, sostengono la necessità dell’intervento pubblico sin dallo scoppio della crisi. A differenza degli economisti mainstream, infatti, gli economisti critici non credono che esistano forze in grado di portare l’economia verso un ideale equilibrio di piena occupazione e la domanda è rilevante sia nel breve e sia nel lungo periodo.

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