Il termine “remain” torna ad aleggiare nell’infinito dibattito politico sulla Brexit. L’eco èm ripartita dal congresso del Labour, che ha aperto apre all’opzione di un referendum bis. Lo ha deciso la conferenza annuale del partito di Jeremy Corbyn, a Liverpool, approvando con un vero e proprio plebiscito una mozione che prevede esplicitamente la possibilità di invocare un secondo voto popolare sull’esito dei negoziati con Bruxelles, seppure in subordine rispetto alla prospettiva di elezioni politiche anticipate, in caso di un ‘no deal’ o di un accordo con l’Ue firmato dal governo Tory di Theresa May, ma respinto dal parlamento di Westminster.
La mozione stabilisce che la maggiore forza d’opposizione britannica voterà in Parlamento contro un eventuale accordo di basso profilo con l’Unione, se il governo May dovesse chiuderne uno. Ma, in caso di bocciatura dell’esecutivo in carica, indica come prima scelta la richiesta di voto anticipato (la via di gran lunga preferita da Corbyn), lasciando sul tavolo solo di riserva “tutte le altre opzioni: inclusa quella di far campagna per un (nuovo) voto” referendario.
L’uscita del Regno Unito dall’Ue avverrà ufficialmente il 29 marzo 2019, ma per questioni di carattere tecnico l’intesa che dovrebbe essere trovata entro novembre appare ancora molto lontana: il primo ministro May sta faticando al tavolo negoziale e il principale nodo resta sempre lo stesso: i confini tra Irlanda e Irlanda del Nord e, a cascata, il mercato unico. I laburisti, ha sottolineato oggi il ministro ombra per la Brexit del gabinetto di Corbyn, Keir Starmer, sono pronti a votare in Parlamento contro l’accordo sottoscritto dal governo May con Bruxelles.
Un voto che John McDonnell, cancelliere dello Scacchiere ombra ed esponente ortodosso del socialismo corbyniano, aveva cercato di ridurre ieri alla dimensione di verdetto sui “termini della Brexit”, liquidando l’idea di ridiscutere il risultato del 2016. E che secondo il medesimo Corbyn – indisponibile in un’intervista alla Bbc a rispondere a domande “per ora ipotetiche” su un altro referendum – dovrebbe comunque essere preceduto da nuove trattative con l’Unione. Ma che Starmer, fra gli applausi dei delegati, spinge un passo più in là: notando come il testo messo ai voti oggi non tolga alcuna ipotesi da tavolo e non “escluda l’opzione Remain” laddove davvero s’arrivasse a una ripetizione della sfida di due anni fa.
L’emergente magistrato prestato alla politica sembra di fatto forzare la posizione tenuta finora da Corbyn. Ma il consenso dell’assemblea lo rafforza, tanto più che il ‘compagno Jeremy’ ha assicurato di volersi rimettere alle decisioni dell’assise. Del resto, almeno su un punto del contrastato dossier Brexit il Partito Laburista sembra ritrovarsi largamente unito: l’intenzione di dire ‘no’ al presumibile accordo con Bruxelles che Theresa May – ammesso che riesca a chiudere uno – dovrà sottoporre a Westminster di qui a un paio di mesi o giù di lì.
Un accordo che per Starmer potrebbe passare solo se rispondesse alle “sei condizioni” fissate a suo tempo per una Brexit “ragionevole”, incluso il rispetto delle tutele dei lavoratori britannici ai livelli attuali e un irrealistico mantenimento del “pieno accesso” ai mercati europei. Qualcosa di “sempre più improbabile”, nelle parole del ministro ombra, che martella sull’imperativo di “salvare il Paese dalla catastrofe” di un ‘no deal’ o di “un accordo vago” di divorzio dall’Europa.
“La nostra preferenza – concede Starmer a Corbyn – resta per le elezioni anticipate”, precondizione per “liberarci del governo Tory”. Ma la seconda scelta, insiste, non può che essere un referendum, e un referendum aperto a ogni esito. Sbocco su cui peraltro a dare le carte spetterà con ogni probabilità di nuovo alla zoppicante leadership di Theresa May, la cui compagine prova a tenere duro sbandierando la promessa di riportare “sotto controllo l’immigrazione” e di equiparare – a transizione post Brexit conclusa – i cittadini europei agli extracomunitari eccezion fatta per i lavoratori “qualificati“.
Una leadership ancora in grado, in fin dei conti, di sventare qualunque ricorso alle urne se la precaria maggioranza che la sostiene riuscisse in extremis a ricompattarsi miracolosamente sull’orlo del pericolo dell’implosione. E comunque di decidere, anche in caso di crisi, se piegarsi o meno all’incognita di un secondo referendum fino a oggi categoricamente rifiutata.