Vedere il presidente del Consiglio posare per i fotografi avendo in mano il cartello del #decretoSalvini, hashtag incluso, fa semplicemente tristezza. Non si capisce più se il professor Giuseppe Conte sia un premier o un ostaggio, sia un protagonista o una vittima di sé stesso, della sua ambizione che ogni giorno esige un corrispettivo sempre più oneroso per vederla realizzata. Conte è divenuto un ausiliario dello spot salviniano, rimosso perché inservibile appena il set di palazzo Chigi ha chiuso i battenti e la contraerea di Matteo Salvini si è abbattuta sui social, facendo migliaia di vittime (“in dieci minuti già terzo in Italia su Twitter! Grazie” ha annunciato felice il ministro dell’Interno).
Far apparire l’immigrazione clandestina, che resta un grande problema da affrontare, come il principale problema della sicurezza in Italia, stabilizzare nella mente l’equivalenza clandestino/ladro (spacciatore, stupratore etc) e risolvere la questione poi con l’hastag resta il raggiro più grande, la truffa più insopportabile alla ragione e alla logica.
La sicurezza in Italia è purtroppo minata da una criminalità diffusa e feroce che è oramai divenuta una montagna invalicabile. Solo per fare un esempio: il presidente Conte proviene da una terra, la Capitanata, la piana foggiana, in cui la legge è scomparsa. Sono i gangster made in Italy a spadroneggiare, a estorcere soldi a chi lavora, a rendere schiavo chi ha bisogno. A espropriare, sparare, intimidire e trasformare quella terra in un far west.
È una vergogna tra le tante e il presidente del Consiglio dovrebbe dichiarare di provarla per l’incapacità dello Stato di rifiutare questa umiliazione invece che fare dei migranti un capro espiatorio sistemico, funzionale al cortocircuito creato per ingannare anziché risolvere un problema. Le baby gang di Napoli, le mafie che dominano il Mezzogiorno, i colletti bianchi che la infiltrano nel tessuto produttivo del Nord: queste rappresentano l’emergenza sicurezza. Contro di esse lo Stato dovrebbe impegnare ogni risorsa. E invece?
Invece il premier fa il comprimario nella recita salviniana.
Il foglietto in mano, lo sguardo assente, gli occhi che mirano il vuoto.
È il premier dell’altrove.