"A mia memoria, gli editori non hanno mai costituito oggetto specifico di indagini, ma a volte il silenzio dei giornalisti spinge ad interrogarsi", dice il procuratore nazionale antimafia commentando il sequestro da 150 milioni. Sigilli al quotidiano La Sicilia di Catania, ad azioni della Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Bari, e a due emittenti televisive, Antenna Sicilia e Telecolor
“Investire nell’editoria, per le mafie, significa indirizzare l’informazione. Intervenire è fondamentale, perché la stampa possa continuare ad essere libera”. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, commenta in un’intervista al Sole 24 Ore il sequestro ordinato dal tribunale di Catania che ieri ha messo i sigilli a 150 milioni di beni dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo. Sotto sequestro è finito il quotidiano La Sicilia di Catania, azioni della Gazzetta del Mezzogiorno, il principale quotidiano di Bari, due emittenti televisive, Antenna Sicilia e Telecolor. E poi alla società Etis, che stampa quotidiani siciliani e nazionali, e la Simeto Docks, concessionaria di pubblicità e affissioni, conti correnti, polizze assicurative, 31 società, quote di partecipazione in altre sette società e beni immobili.
Un’operazione che per il numero uno di via Giulia ha aperto “un nuovo corso, per approfondire sacche di sospetti”. “A mia memoria, gli editori non hanno mai costituito oggetto specifico di indagini, ma a volte il silenzio dei giornalisti spinge ad interrogarsi”, dice Cafiero de Raho. “Qui sono stati sequestrati beni, strumentali anche a determinate attività connesse con la stampa. Molti affermano che non interessa parlare di mafia. Forse, invece, se non se ne parla non è perché il cittadino non è interessato, ma ci sono altre spinte”. Cioè? “Le mafie si proiettano nei settori in cui riescono a trovare maggiore consenso. E la stampa fa particolarmente gola“, dice il procuratore che è favorevole alla proposta, avanzata dal presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava, di affidare le testate, in caso di confisca, ai giornalisti siciliani che hanno cercato di raccontare le collusioni mafiose. “Va nella direzione auspicabile: assegnare l’impresa sequestrata a cooperative di lavoratori, giornalisti liberi che possano lavorare in modo libero”.
Ieri in serata l’87enne Ciancio ha fatto sapere di essersi dimesso dalla carica di direttore responsabile mentre il figlio Domenico ha lasciato l’incarico di condirettore. L’assemblea dei soci della Domenico Sanfilippo editori ha nominato nuovo direttore Antonelo Piraneo, attuale caporedattore del quotidiano. “Ribadiamo la nostra fiducia nell’operato della magistratura. Noi giornalisti continueremo a fare – come sempre – il nostro lavoro a testa alta, con dignità e onestà intellettuale, pur gravati da ieri di un maggiore carico di preoccupazione legittima per la conservazione dei nostri posti di lavoro. Ribadiamo altresì che il quotidiano La Sicilia è sempre stato dei giornalisti. Non consentiamo quindi ad alcuno di speculare sulla nostra professionalità che, come sempre, continueremo ad assicurare in nome di una indipendenza e di una libertà di stampa che non sono mai venute meno e che sono garanzia di democrazia per chi scrive e per chi legge”, hanno scritto in una nota i lavoratori del quotidiano catanese. Che ringraziano Ciancio, attualmente imputato per concorso esterno a Cosa nostra. “Al direttore Mario Ciancio Sanfilippo, che nei decenni ha portato avanti questa testata con orgoglio, con passione e, soprattutto, con grande umanità, va il nostro affettuoso ringraziamento, certi che sarà in grado di chiarire la sua posizione giudiziaria. Al nuovo direttore Antonello Piraneo, sicuri che continuerà a garantire la libertà di espressione, assicuriamo il nostro pieno sostegno. Ai lettori garantiamo che, anche in un momento così difficile, non verrà meno il nostro impegno per una corretta e libera informazione”.
Il sequestro è un procedimento che si sviluppa parallelamente al processo penale: Ciancio, infatti, è attualmente imputato per concorso esterno a Cosa nostra. Lunga e tormentata la storia giudiziaria dell’imprenditore, rinviato a giudizio arrivato nel 2017 dopo un lunghissimo iter giudiziario. La procura di Catania aveva aperto l’indagine a carico di Ciancio nel 2007, ma nel 2012 ne aveva chiesto l’archiviazione. Richiesta bocciata dal gup Luigi Barone, che aveva disposto la trasmissione degli atti ai pm. Gli inquirenti avevano a quel punto chiesto il rinvio a giudizio dell’editore, raccogliendo il pollice verso da parte del gup Bernabò Distefano nel dicembre del 2015. Una decisione che aveva sollevato parecchie polemiche – con il presidente dell’ufficio gip di Catania, Nunzio Salpietro, che aveva preso le distanze dalla sentenza – visto che nelle sue motivazioni Distefano faceva a pezzi il reato di concorso esterno definito come “una figura che si potrebbe definire quasi idealizzata nell’ambito di un illecito penale così grave per la collettività”. Un giudizio completamente ribaltato dalla Suprema Corte, che ha accolto l’appello della procura contro il proscioglimento di Ciancio. Secondo gli ermellini “non si sorregge in alcun modo la conclusione della non configurabilità della fattispecie del concorso esterno nel reato associativo” che ha di principio “una funzione estensiva dell’ordinamento penale, che porta a coprire anche fatti altrimenti non punibili”. È per questo motivo che dodici mesi fa un nuovo gup – il terzo a occuparsi della vicenda Ciancio in dieci anni di indagini – ha ordinato il processo per l’editore catanese, ormai 86enne.