Valigia di Cartone

“Felice solo perché al Nord lo stipendio arriva puntuale. Non ci sono più sogni, solo bisogni”

Partiti in cerca di un lavoro. Gli emigranti esistono anche in Italia. Vanno verso il nord del Paese, verso l’Europa, verso l’America. Lasciano la famiglia come a inizio Novecento, con una ideale “valigia di cartone”. Ecco alcune delle loro storie raccontate a valigiadicartone.ilfatto@gmail.com

Cosa c’è da raccontare che non sia già stato detto e scritto? Cosa c’è da dire che non sia già stato vissuto da altri? Mi hanno sempre insegnato che la storia dell’uomo è fatta di cicli di vita che puntualmente si ripetono. E questo, probabilmente perché l’uomo (al di là delle più ottimistiche aspettative), non impara dai propri errori o dal proprio passato. Dalla propria storia.

Un animale invece, già istintivamente è portato a non commettere errori. La curiosità c’è, esiste, ma resta all’interno dei confini della “logica intuizione” di ciò che è giusto (nel senso di pericoloso o dannoso per sé e gli altri animali) e ciò che non lo è.

Avrò 34 anni tra poco ormai, una laurea – mai inutile, perché il bagaglio culturale, emotivo e l’esperienza vissuta da studente fuori sede resteranno sempre e sempre saranno utili se non per la comprensione del tutto, almeno per la possibilità che ti danno si soffermarti a riflettere con maggiore intensità sulle cose.

Vengo da un paese vicino a Reggio Calabria. Un posto di mare, fatto di gente semplice e complicata al tempo stesso, la frazione marina del comune montano. Un posto che ha visto dagli anni ’70 ai primi Duemila un fase storica positiva: turismo, piccole aziende che nascevano e altre che crescevano. Lentamente tutto svanisce sotto gli occhi di tutti, nessuno fa nulla o almeno nessuno fa nulla in tempo per fermare il declino occupazionale, culturale. Una sorte che tocca a tutto il sud Italia.

Finite le scuole superiori inizio a lavorare, lo faccio con un contratto a tempo indeterminato per tre anni. Poi tutto svanisce, si dissolve, come molte aziende del sud. In un attimo. Allora arriva nel 2007 l’università, Bologna e Scienze politiche. Un percorso portato a termine con buoni risultati, credo. Nel 2011 torno “al paesello” convinto che ci sia qualcosa da fare, da costruire, la possibilità di mettere in piedi il proprio futuro accanto alla propria famiglia, alla compagna di una vita, ai propri amici.

Molte cose buone abbiamo fatto giù al Sud in quegli anni: un’associazione, la prima squadra di basket in carrozzina della Calabria, visto il fiorire di movimenti giovanili, azioni politiche e sociali concrete per il nostro territorio, un paio di lavori che ti servono per andare avanti e aspettare la tua occasione. Ma alla fine si sa, un aspetto “antipatico” del vivere (da sempre è stato così) sono quei 1000/ 1500 euro che al mese ti servono per vivere, magari non a casa dei tuoi: generazioni di bamboccioni qualcuno ci ha definiti. Bah!

Dopo cinque sei anni di tentativi, chiudi gli occhi e decidi allora di rifare la valigia di cartone, riempire il tuo zaino pieno di tutte le paure che ti porti dietro da anni e ripartire da zero. Ottobre 2017.

Adesso sono qui, a Bologna nuovamente, una città, non la mia, ma la più “vicina”. Faccio, o meglio farò due lavori per tirare avanti, ma non mi lamento.

Vedete, noi gente del sud ci meravigliamo persino se ogni 10 del mese arriva puntuale lo stipendio, ci esaltiamo all’idea che se ti ammali verrai pagato lo stesso, siamo quasi increduli all’idea che se farai un’ora in più a lavoro, quell’ora ti verrà pagata.

Ecco, è questo che è successo nuovamente negli anni, una fenomeno ciclico che si ripete: la storia passata che torna a diventare presente. Come durante il primo grande fenomeno di migrazione del dopoguerra, dove il terrone emigrato ringraziava il datore di lavoro in maniera quasi reverenziale per il posto di lavoro, oggi (le cose sono sicuramente cambiate per certi aspetti), mi ritrovo a parlare con miei coetanei e amici sparsi in tutta Italia e a dire quanto sia gratificante semplicemente lavorare. Sì per pochi spiccioli, ma come ci diciamo noi, sempre meglio di niente.

Ma è proprio quando un’intera generazione o buona parte di essa ha smesso di sognare o si accontenta tutta di volare basso che sarebbe utile interrogarsi (anche solo durante il tempo libero) su che razza di futuro c’è da aspettarsi da un popolo o da una generazione che non sogna più. E che come 50 o 60 anni fa continua a fare “inchini”.

Carmelo Andrea Saraceno