Gli Open Data, cioè i dati in formato digitale aperto e accessibile a tutti sull’attività delle Pubbliche Amministrazioni, potrebbero contribuire allo sviluppo economico del nostro Paese. Il condizionale è d’obbligo, perché da una parte le PA dovrebbero alimentare continuamente, con informazioni “fresche” gli archivi pubblici; dall’altra le imprese sul territorio dovrebbero avere personale tecnico in grado di usare i dati. Un esempio per tutti: i trasporti e la mobilità. Ci sono applicazioni come Moovit – una delle più diffuse al mondo e molto usata anche in Italia – che basano il loro successo proprio grazie agli Open Data. Moovit è in grado di agevolare gli spostamenti degli utenti perché attinge alle informazioni fornite dalle aziende di trasporto cittadine e territoriali. Orari, movimenti degli autobus, dei tram, delle metropolitane. Provate Moovit (tra l’altro l’app è gratuita) e scoprirete com’è facile pianificare i vostri spostamenti. E ci sono molti altri ambiti in cui i dati in formato aperto potrebbero fare la differenza.
Purtroppo, in Italia agli Open Data ci credono in pochi, come confermano due ricerche condotte dall’Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano sulle Pubbliche Amministrazioni locali e da Unioncamere sulle imprese italiane. A quanto pare, la domanda è poca e l’offerta di scarsa qualità. Tra i Comuni – che posseggono una parte consistente dei dati di interesse pubblico, come quelli su trasporto pubblico, turismo, cultura e attività produttive – solo uno su tre pubblica dati in formato open. E poi i dati sono di bassa qualità, poco accessibili, non uniformi per un utilizzo a livello nazionale.
Insomma, abbiamo una legislazione all’avanguardia che invita tutte le PA a rilasciare i dati per essere liberamente usati, riutilizzati e ridistribuiti da chiunque ne abbia interesse ma il sistema non decolla. I Comuni ci credono poco, mettono qualche dato (quasi sempre vecchio e superato) sui loro siti ufficiali e fanno dunque operazioni di facciata. D’altro canto, soltanto il 4 per cento delle imprese manifatturiere utilizza dati in formato aperto offerti dalle amministrazioni pubbliche. E così il gatto si morde la coda.
I motivi? I ricercatori dicono che le PA pensano che gli Open Data siano più un obbligo normativo che un’opportunità. L’80% dei Comuni non riscontra alcun impatto positivo dalla pubblicazione di dati in formato aperto e il 55% li ritiene addirittura inutili o poco utili per la crescita del tessuto imprenditoriale. Quanto alle imprese, il 77% considera strategico l’uso dei dati per il business, ma l’utilizzo di open data da fonte PA è riservato ancora a pochi pionieri, anche se il 45% vorrebbe conoscerli meglio.
E poi non ci sono categorie di dati pubblicati da tutti i Comuni in modo uniforme e questo rende difficile fare massa critica per un possibile utilizzo a livello nazionale. Inoltre, i dati sono poco accessibili: la maggior parte dei Comuni li pubblica nella propria sezione trasparenza (il 83%) o sul sito istituzionale in una sezione ad hoc (33%), solo l’8% sul sito open data della Regione e solo il 2% sul sito open data nazionale.
Inoltre, gli enti pubblici attribuiscono la colpa della scarsa offerta e qualità alla mancata disponibilità di competenze interne (50%), alla insufficienza di personale interno (42%), alle ridotte risorse economiche da dedicare (24%) e al poco interesse dei politici (23%). Cioè, servono soldi e tecnici. Le imprese, poi, dicono (il 70%) di essersi dotate di strumenti e competenze per il data management, ma in realtà il 68% non conosce l’esistenza di figure professionali come il Big Data Analytics specialist, il Chief Data officer, il Data Scientist o il Big Data Architect, cioè le figure chiave per trasformare gli Open Data in opportunità di crescita.
Il messaggio è chiaro. Gli Open Data (e, più in generale, i Big Data) sono petrolio digitale ma nessuno si dà veramente da fare per estrarlo, raffinarlo, distribuirlo e fare il pieno per far marciare la nuova economia.