Vertici e pre-vertici, riunioni e faccia a faccia, messaggi cifrati e incrociati, avvertimenti, comunicazioni rassicuranti all’esterno per nascondere le scintille all’interno, quelle provocate dalle spade che si incrociavano: da una parte l’arma del ministro del Tesoro Giovanni Tria – quella soglia che sembrava invalicabile del 2 per cento di rapporto tra deficit e Pil – e dall’altra l’ariete dei due vicepresidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini, pronti a sfondare quella linea Maginot a cavallo della quale il ministro sembrava intenzionato a resistere per il buon ordine dei conti oltre che per il suo buon nome, viste le promesse fatte all’Unione Europea. Il patto tra i leader di M5s e Lega è stato più forte, all’apparenza irresistibile, una specie di carrarmato. Quella che sembrava una partita a scacchi, si è trasformata almeno all’apparenza in una rotta dal campo di battaglia da parte del ministero del Tesoro, come in una specie di Caporetto. Le reazioni da parte dei due soci di governo sono molto diverse: i Cinquestelle festeggiano in piazza come non si vedeva dal 4 marzo, mescolando capigruppo e militanti, sottosegretari e sbandieratori ed esultando perfino sul balcone di Palazzo Chigi dal quale si affacciano i ministri M5s, il generale Costa compreso; la Lega, invece, resta in un silenzio tombale, limitandosi a una stringatissima dichiarazione di Matteo Salvini peraltro diffusa dalla sua portavoce e non da lui direttamente. Il tono, oltre che l’estetica, è molto diverso: il segretario leghista si limita alla “soddisfazione per gli obiettivi raggiunti”, il collega vicepremier – con il consueto abbrivio retorico – assicura che “è una manovra del popolo” e che “oggi è cambiata l’Italia”. Di sicuro queste sono le fondamenta dell’autostrada su cui M5s e Lega potranno correre a cento all’ora in direzione delle elezioni europee: l’incasso appare garantito e l’allungamento della vita del governo pure.
Eppure il vertice decisivo, la sfida finale – che ha anticipato il consiglio dei ministri e la festa in piazza, in attesa del percorso parlamentare e delle verifiche del Quirinale – si è consumata in mezzo ai lampi e ai tuoni che hanno circondato Palazzo Chigi per tutto il giorno. E’ sufficiente il racconto che rende l’agenzia Ansa nella prima parte del vertice convocato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: Tria, quando giunge nella sede del governo, non partecipa alla prima riunione con Salvini e Di Maio. Entra solo nella stanza di Conte, per riuscirvi dopo una manciata di minuti con le sue tabelle da aggiornare. I numeri del Def che Tria porta a metà poemriggio assieme alla sua squadra di tecnici non sono neanche visionati ai leader dei partiti di maggioranza. Sono tabelle che parlano di un deficit/Pil sotto il 2 per cento, tabelle che sia Di Maio sia Salvini considerano superate, nell’eterna gara che i due leader imbastiscono per incassare le loro promesse elettorali.
E per onorare quelle promesse Di Maio e Salvini – il primo con maggiore durezza del secondo – sono disponibili anche a fare a meno del titolare del Mef. E’ una linea, quella dei Cinquestelle e dei leghisti, alla quale si affianca, seppur con la solita cautela, anche Giuseppe Conte dopo che ha evitato lo scontro frontale per tutta l’ultima settimana. Ed è lo stesso Conte a fare da raccordo, da messaggero, tra i vicepremier e Tria nella prima parte del vertice: perché mentre Tria e Conte sono riuniti, Salvini, Di Maio e il sottosegretario Giancarlo Giorgetti si incontrano in una stanza diversa per decidere, lontano dagli annunci via web, se e come sfondare o meno la “soglia psicologica” del 2 per cento.
Fonti della maggioranza, citate dalle agenzie di stampa, descrivono Tria come messo all’angolo, in minoranza, e costretto ad arrendersi. Una resa che dalle quinte arriva alla ribalta quando si vede lasciare Palazzo Chigi probabilmente per aggiornare le tabelle al nuovo obiettivo del 2,4 per cento, non deciso da lui e forse nemmeno con lui. L’Ansa dice addirittura che il titolare del Tesoro sia anche salito al Quirinale, ma la presidenza della Repubblica smentisce. Preoccupato, pronto a resistere, ma senza alcuna intenzione di abbandonare il governo come magari vorrebbe il capogruppo della Lega Riccardo Molinari che nel corso della giornata si era lasciato andare a quel “ne troveremo un altro” (dimenticando forse tutta la fatica fatta per trovarne uno 4 mesi fa, di ministro dell’Economia). E nel lavoro di dai e dai per convincere il titolare del Tesoro un ruolo chiave lo svolge Paolo Savona, il ministro per gli Affari Europei che doveva essere al posto di Tria. Savona conosce bene Tria, da prima di giurare insieme al Quirinale. I due sono insieme quando abbandonano temporaneamente Palazzo Chigi per tornarci un po’ prima dell’ora di cena, quando inizia un secondo incontro. Questa volta ci sono tutti: Salvini e Di Maio, ma anche i due viceministri dell’Economia, ciascuno per quota, Massimo Garavaglia per il Carroccio e Laura Castelli per il M5s. Una sponda al ministro – debole – arriva da Giorgetti che prova a dire agli altri che stare sul 2,1 sarebbe la meglio. Ma non c’è partita. E alla fine Tria si convince quando si dice di prevedere quello che in un post su facebook il presidente del Consiglio Conte definirà il “più consistente piano di investimenti pubblici che sia mai stato realizzato in Italia”. Il ruolo di Conte sembra essere stato fondamentale. Il capo del governo a notte fonda scriverà: “Nella Nota di aggiornamento abbiamo previsto un rapporto deficit-Pil al 2,4%. Abbiamo un rigoroso accordo politico che ci impegna a mantenere intatto questo rapporto, non solo per il 2019 ma anche per il biennio successivo. Introdurremo meccanismi di controllo della spesa che impediscano il superamento di questa soglia. Siamo fiduciosi che in virtù dell’imponente piano d’investimenti deliberato tali meccanismi non saranno mai attivati. Tuttavia abbiamo preferito prevederli anche al fine di garantire la massima serietà del lavoro fatto fin qui”.
Tutto – lo sfondamento della linea di Tria, i festeggiamenti di piazza, l’esultanza come se fosse il capitolo finale della storia – avviene nell’attesa dei vari segnali che potrebbero arrivare già nelle prossime ore: dai mercati finanziari e dal “termometro” dello spread tra Btp e Bund tedeschi, ma anche dai vertici dell’Unione Europea ai quali era stato assicurata una certa prudenza. Tra tre giorni Tria spiegherà tutto prima all’Eurogruppo, cioè il coordinamento dei ministri della zona euro, e l’indomani all’Ecofin, cioè il vertice dei ministri delle Finanze dei 28. E poi c’è il Quirinale, che da una parte considerava il 2 per cento come una soglia da non superare e dall’altra ha mantenuto il silenzio come per abitudine. Gli strumenti del Colle, da qui alla firma definitiva sulla manovra, sono altri.