È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora, e questo lo disse chi conquistò il suo popolo non avendo altro da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Chi invece offre più soldi e meno neri, come Giancarlo Giorgetti, ha detto tempo fa che il Parlamento non conta più nulla perché non è più sentito dai cittadini-elettori, che vi vedono il luogo dell’inconcludenza della politica.
Chi promette la democrazia non più solo rappresentativa bensì perfino diretta, ha vaticinato la possibile chiusura del Parlamento: lo ha fatto dal vertice della forza politica più rappresentata alla Camera e al Senato. A quel punto il capo politico della stessa forza politica, Luigi Di Maio, vicecapo del governo, ha esibito un sorriso: sù sù, è il Parlamento che deve dimostrare con atti concreti di non essere obsoleto. A chi si lamentava in estate che le Camere erano appena partite e già lavoravano al rallenti, il ministro che con il Parlamento tiene i Rapporti, Riccardo Fraccaro, ha risposto che un po’ era colpa dell’ottovolante con cui si era arrivati all’avvio della legislatura e che però ormai i lavori procedevano spediti e d’altra parte meglio meno leggi ma scritte bene: è così – ha detto – che si valorizza la centralità del Parlamento.
(In un inciso va messo a verbale che la storia recente gli dà ragione, dopo che per quattro anni la Corte Costituzionale ha scassato una buona parte delle leggi del governo della svolta buona: Jobs Act, riforma della Pubblica amministrazione, Buona Scuola e Italicum. Poi i politici però spiegheranno a chi li vota per fare bene il loro lavoro per quale regola non si possono avere tutte le leggi che servono ma anche scritte bene, visto che vengono eletti lì apposta).
Nel frattempo, però, in attesa dei prodigi della democrazia diretta, ci si accontenterebbe di far funzionare quella che c’hanno dato con qualche affanno. Perché nell’attesa di dimostrare di non essere inconcludente come dice il sottosegretario, di non essere obsoleto come dice il vicecapo e di essere centrale come dice il ministro, il Parlamento si è appisolato. Ilfatto.it già la scorsa settimana aveva sottolineato come nel calendario dell’Aula di Montecitorio fossero previste solo tre mozioni, la quasi totalità firmate da parlamentari delle opposizioni. Cioè nulla. La prossima settimana, invece, prevede l’inizio della discussione del disegno di legge sulla class action, una legge già approvata da Montecitorio nella scorsa legislatura, che poi si perse al Senato e che ora il M5s rimette in corsa. Cioè il minimo sindacale.
Ieri Manolo Lanaro ha raccontato così dello sconforto di un parlamentare ex M5s che ha provato a chiedere al governo, visto l’andazzo, almeno di discutere le leggi di iniziativa popolare (democrazia forse non direttissima, ma la più diretta che c’è), un tempo chiodo fisso del già partito d’opposizione diventato di governo. L’indolenza delle Camere, l’abuso dei decreti, l’avvilimento progressivo delle Camere non avviene da oggi né dal primo giugno. La differenza è che ci è stato detto più volte tutto è cambiato, che finalmente il popolo è rappresentato (mentre prima no) e che può finalmente esercitare la sua sovranità (anche se tutti si dimenticano di dire che l’articolo 1 aggiunge i limiti e le forme della Costituzione).
Il Parlamento – la “casa del popolo” – funziona se qualcuno lo fa funzionare. E lo fanno funzionare non solo il presidente e i commessi, ma se chi deve decidere, decide. Chi ha la responsabilità di scrivere l’agenda. E’ la maggioranza. Ma la maggioranza alla ripresa dopo le vacanze sembra scomparsa dal Parlamento: vive solo a Palazzo Chigi, nel Consiglio dei ministri, visto che al momento le uniche leggi discusse sono stati decreti e su 4 solo due c’entrano con il contratto di governo. Eppure proprio quello – il contratto – sembrava essere il manuale per attuare il programma in fretta e per bene.
Nel mese di settembre, secondo il sito ufficiale, l’Aula della Camera si è riunita undici volte, che sarebbero anche tante se ci fosse dentro qualcosa: una seduta straordinaria sul Ponte Morandi, 4 convocazioni per il Milleproroghe, una mezza giornata di votazioni per decidere con che procedura votare alcuni testi di legge (in parte delle opposizioni), una sull’assestamento di bilancio (un pro-forma), poi mozioni, interpellanze, question time per una manciata di ore in tutto. Il Senato nello stesso mese ha riunito l’assemblea otto volte: in una è stato approvato il decreto Milleproroghe, in un’altra il ddl “seggiolini”, poi una comunicazione sulla Diciotti, la discussione per l’istituzione di alcune commissioni d’inchiesta e poi di nuovo assestamento di bilancio, interrogazioni, interpellanze, question time.
Le commissioni parlamentari – sempre da calendario online – si sono riunite come per prassi al massimo per tre giorni alla settimana, salvo eccezioni: dal martedì al giovedì. Le eccezioni sempre al ribasso, mai al rialzo, vale a dire che la stragrande parte ha lavorato una o due volte a settimana. Di cosa si è parlato? Tra Camera e Senato le commissioni sono 28, in 16 occasioni in agenda c’erano proposte di legge: solo pensioni d’oro (M5s-Lega) e semplificazione del fisco (M5s) hanno a che fare con il governo.
Il resto? Tra le altre videosorveglianza degli asili (Calabria, Forza Italia), i reati contro i beni culturali (Franceschini), l’inapplicabilità dell’ergastolo in rito abbreviato per certi reati (Morani, Pd), la compravendita di beni usati (M5s e Pd), la tutela delle isole minori (bipartisan), la promozione dell’attività dell’educazione fisica, il riconoscimento della cefalea come malattia sociale. Il grosso, anzi il grossissimo, del calendario è stato riservato ad altre attività, ben intesi meritorie. La prima, i pareri sui decreti: la riforma dell’ordinamento penitenziario, per esempio, ma poi la revisione dei ruoli della polizia, la nomina di Roberto Andò nel cda al Centro sperimentale di cinematografia, la ricostituzione del pesce spada nel Mediterraneo. La seconda, le audizioni: dieci audizioni, venti, trenta audizioni, una montagna di audizioni.
II Parlamento, a dispetto dell’etimo, è un centro d’ascolto. Questa settimana sono stati ascoltati ministri (Centinaio, Bongiorno, Savona), ammiragli (il comandante delle Capitanerie), amministratori e commissari (Ferrovie e Alitalia), il Cnel (ancora tu), associazioni di categoria ma proprio tutte tutte (industriali, commercianti, esercenti, ristoratori, Associazione Nazionale emettitrici di buoni pasto, Federazione di ostetricia, Movimento No Grazie, “l’associazione culturale pediatri”, Slow medicine, “Italia che cambia”) e naturalmente consulenti che possono dare pareri a chi dà pareri (questa settimana c’era per esempio Giorgio Calabrese, il dietologo, chiamato per una risoluzione da approvare sul consumo eccessivo di zucchero).
Un tempo non troppo lontano in Parlamento c’era chi gli veniva le vene del collo grosse così per i trolley impacchettati in Transatlantico il giovedì sera, trolley appartenenti agli Altri. Ora, con questo cambiamento di cui tutti parlano, mentre i ministri fanno il segno della vittoria sul balcone di Palazzo Chigi agli sbandieratori che li acclamano nella piazza sottostante, il Parlamento sembra non aver niente di cui discutere. Due pianeti, una realtà scissa: in uno il discorso pubblico sui mezzi di comunicazione è pieno di ministri, sottosegretari, capigruppo e segretari particolari che parlano di questo, di quello e di quell’altro; nell’altro le Camere, con a disposizione un intero mese, che approvano la bellezza di mille proroghe e il “ddl seggiolini”. Nelle ore in cui si sente pronunciare in modo ossessivo la parola popolo, il posto in cui il popolo è rappresentato, attraverso il quale (e con i limiti del quale) il popolo esercita la sua sovranità, rischia di assomigliare sempre di più a una sagoma di Cinecittà: davanti la scenografia, dietro le assi oblique che la tengono su.