“Devono innanzitutto spiegare come porteranno via tonnellate e tonnellate di macerie. Da dove? Lei lo sa? Passeranno nel traffico di Genova?”. L’ingegnere Gabriele Camomilla, direttore della Ricerca e Manutenzione di Autostrade fino al 2005 e autore del restauro della pila 11 del Ponte Morandi negli Anni Novanta, non vuole proprio sentir parlare di demolizione di quel che è rimasto in piedi del viadotto, crollato il 14 agosto provocando 43 morti.

“Ci sono 650 metri di ponte, passatemi la provocazione, in ottime condizioni. La maggior parte dei ponti italiani è messo peggio di quel che è rimasto del Morandi. Perché si devono buttare giù? Lei ha sentito qualcuno capace di dirlo in maniera ragionevole?”, si interroga al telefono l’ingegnere che racconta di aver “fatto manutenzione su oltre 200 ponti italiani”. Accento romano, linguaggio schietto e senza fronzoli, idee chiare: ciò che è sopravvissuto al collasso va salvato. Per una ragione, innanzitutto. I tempi: “Se lo buttano giù, ci vorrà il quadruplo per avere un ponte nuovo”.

Perché? Partiamo dalle ragioni tecniche. 
“Senza considerare le fondazioni da rifare, e parliamo di piloni di più metri di diametro e 40 metri di profondità, esistono 650 metri di ponte intatti o riparabili. Si potrebbe lavorare con una tecnica in parallelo tra messa in sicurezza e ricostruzione. Se demoliscono, bisognerà invece lavorare “in serie”: ovvero prima buttare tutto giù e poi ricostruire. E poi dove passano le tonnellate di macerie? Nel traffico di Genova?”.

Tra la sua idea e quella della demolizione-ricostruzione qual è la differenza in termini di tempo?
“Non si tratta di una stima precisa, ovviamente, perché non ho i dettagli. Ma allo stesso modo non lo sono neanche i tempi prospettati da chi sostiene il contrario. Esiste un rapporto ottimistico di uno a quattro tra i tempi necessari per dei lavori che prevedano demolizione e ricostruzione rispetto a recupero dell’esistente e ricostruzione della parte crollata. Insomma, se lo buttano giù, ci vorrà il quadruplo”.

C’è chi dice che il ponte contiene amianto. 
“Cado dalle nuvole, eppure avrei tutto l’interesse a dirle che sì, è proprio così, perché la presenza di amianto avvalora la mia tesi visto che si disperderebbe durante la fase di demolizione. Invece mi chiedo come fa ad esserci amianto in un ponte di calcestruzzo”.

Lo denunciarono a fine agosto i vigili del fuoco che lavoravano tra le macerie.
“Loro sanno quel che hanno visto e sanno riconoscerlo. Ma sono certo che parliamo al massimo di qualche tubo di alleggerimento o di qualche mattone forato. Tutti elementi che oggi sono in plastica e all’epoca probabilmente erano di amianto”.

Bisogna salvare anche la pila 11, quella che trovaste in cattive condizioni e riparaste negli Anni Novanta?
“Quella pila, dopo gli interventi fatti tra il 1993 e il 1994, ha 48 stralli. Qua-ran-tot-to (lo scandisce, nda). E sono sostituibili uno a uno se dovessero danneggiarsi”.

E la pila 10, quella più vicina all’area del crollo? 
“È necessaria una valutazione ad oggi. Quali sono le reali condizioni? Leggo che sono stati applicati i sensori – a proposito, chi si è occupato dell’intervento? Quali sensori sono stati installati? – e quindi ora sapremo con certezza com’è messo”.

C’è poi la parte senza stralli, quella più vicina all’area industriale. 
“Gli stralli, vorrei ricordarlo, sono l’unica specifica di quel ponte. Lì non ci sono e, a maggior ragione, mi chiedo perché debba essere abbattuta. C’è del “degrado corticale”? È come avere una leggera acne, si può sanare facilmente. Di acne non è mai morto nessuno. Temono gli “appoggi ai giunti”? Si cambiano, come le scarpe. Oltretutto senza traffico è ancora più semplice”.

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