Mario Caso, 28 anni, ha lasciato il suo paese in Calabria cinque giorni dopo la laurea in Giurisprudenza. "Ho deciso di andarmene per ripartire da zero. Dall'Italia solo false promesse, le nuove generazioni si sentono imbrogliate"
La prima volta che Mario ha lasciato l’Italia è stato cinque giorni dopo la sua laurea in Giurisprudenza. “Ho deciso di andare in Svizzera e ripartire da zero”, ricorda. La cosa più difficile non è stata separarsi da Squillace, il suo paesino d’origine in Calabria, trovare un appartamento nel Canton Argovia, né rifiutare un posto da candidato alle elezioni comunali. Ma convincere la sua famiglia, e soprattutto suo padre, della sua scelta. “Quando papà mi aveva visto fare i primi lavori umili, dal contadino ai servizi di pulizie, mi aveva detto che ero un folle”. In pochi mesi in Svizzera Mario Caso, 28 anni, ha imparato il tedesco, firmato il suo primo contratto a tempo indeterminato in una società di trasporti e oggi è stato promosso entrando nell’amministrazione dell’azienda. “L’Italia? Solo false promesse”.
Ci aveva provato Mario a darsi da fare nella sua terra. “Terminati gli studi superiori abbiamo fondato una cooperativa di lavoro – racconta – In più ho diretto per oltre 6 anni una storica associazione molto attiva sul territorio”. Poi, la scelta di andare via: “Avevo 25 anni quando ho preso il mio treno verso nord”. Negli occhi la stanchezza unita al tanto entusiasmo per il futuro.
Ma l’arrivo in Svizzera non è stato facile. “Se da una parte qui regna l’ordine, la burocrazia è efficiente e il sistema assistenziale è forte, dall’altra la gente, con schiettezza e sincerità, ama mantenere una certa distanza”. La Svizzera, insomma, è un “grande Paese ed il suo popolo, seppur multietnico, ha un carattere ben definito e con le sue spigolosità”. I rapporti iniziano quasi sempre con il pregiudizio, “ma il tempo aiuta”, sorride Mario.
La giornata inizia molto presto: “Alle 5 sono già in ufficio – racconta Mario –. Controllo i piani di lavoro, coordino le corse giornaliere, sono in contatto con corrieri e vettori, parlo con loro in più lingue”. Mario ne va fiero, “la gavetta mi ha aiutato”, dice. Dopo tre mesi in Svizzera è arrivato il primo contratto a tempo indeterminato. Dopo un anno e mezzo la promozione a coordinatore. “No, ad essere sincero non mi sono mai sentito costretto ad emigrare – risponde –. La mia è una storia che si è costruita passo dopo passo”.
La Svizzera però non così perfetta come molti credono: è semplicemente “diversa dall’Italia, con stipendi più alti e servizi di qualità, profondo senso civico ed efficienza amministrativa ad ogni livello”. E ancora “poca corruzione, più sicurezza, una democrazia più partecipata e percorsi formativi che hanno collegamenti diretti e concreti con il mondo del lavoro”. L’Italia per Mario continua ad essere assediata da “false promesse” che distruggono “il senso di una prospettiva futura”. La sua generazione, insomma, è stata costretta ad andare via “nel momento in cui voleva confrontarsi con un sistema meritocratico. O puntando su concorsi che non siano teatri in cui il ruolo di attori protagonisti spetta a raccomandati che alimentano il solito sistema clientelare italiano”.
Tornare? “Non si sa mai, ma è pur vero che bisogna bilanciare le opportunità concrete e i valori in gioco”. Nelle scorse settimane un gruppo di giovani, amici ed ex amministratori, ha chiesto a Mario di rientrare dalla Svizzera per rappresentare la sintesi ideale di un nuovo progetto politico in vista delle prossime tornate elettorali. “Sarebbe un bel modo per poter contribuire con maggior esperienza al progresso della mia comunità e della mia terra. Ci sto pensando”, confessa Mario. E spesso ricorda con il sorriso quanto sia stato lungo e difficile il suo percorso: imparare altre lingue, mantenere gli obiettivi senza mollare, stare lontano da casa. “Ma essere emigrante oggi significa fare una scelta molto più razionale rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto: le distanze si sono ridotte, le comunicazioni sono sempre più facili. Non c’è più, insomma, quel senso di abbandono e di solitudine”.
In Italia invece c’è un senso di noia: non succede niente e non cambia mai niente. “È come se le nuove generazioni si sentissero imbrogliate. Basti pensare che ancora non si risponde a chi spedisce curricula, si ottengono posti di lavoro a seconda delle appartenenze e senza meritocrazia”. Se si vuole ripartire serve la mentalità giusta, persone serie, misurate e competenti. “Serve trasformare, insomma, il concetto di meritocrazia da leggenda mitologica a meravigliosa realtà”.