Un evento che mette insieme attivisti per il diritto al cibo provenienti da tutte le parti del mondo, esperti di alimentazione, produttori di qualità, nonché (e soprattutto) cittadini interessati semplicemente a saperne di più su quello che mettono a tavola e, più in generale, sulle “implicazioni del mangiare”, un’iniziativa del genere è utile e meritevole in sé. Se l’evento in questione è il Salone del gusto – Terra madre e la sua parola d’ordine è “food for change”, il cibo per il cambiamento, allora esso acquista un evidente valore aggiunto civile, oltre che gastronomico.
L’elaborazione collettiva del valore nevralgico che il cibo ha ormai assunto nello stato di salute di ognuno di noi, nonché del pianeta; la diffusione dei dati e delle idee in questo senso; la sensibilizzazione sulla natura di “atto agricolo e politico” del mangiare; la denuncia di un sistema agroalimentare mondiale tanto ferocemente iniquo nelle relazioni tra gli appartenenti a diverse aree del mondo e delle varie società, e in particolare nella distribuzione dei costi e dei benefici connessi a tutta la filiera degli alimenti, quanto ormai dissennato fino all’autolesionismo “di specie”, se si considerano le sorti, sempre meno magnifiche e progressive, che stanno di fronte – a distanza sempre meno siderale – agli esseri umani in quanto tali (salve le differenze, oggi ancora decisamente discriminanti, tra loro: di classe, di genere, di provenienza geopolitica ecc.) su questo pianeta: questo è stato il livello delle questioni che hanno connotato l’edizione 2018 della manifestazione, conclusasi la settimana scorsa.
Sono state al centro di decine di forum, di conferenze, di laboratori che hanno riunito soggettività, esperienze, culture assai diverse tra loro, ma tutte saldamente accomunate dalla consapevolezza della centralità di quell’ “atto agricolo e politico” cui si accennava sopra e delle sue conseguenze a tutto tondo.
Dato atto di questo risultato di tutto rispetto, su alcuni assi della piattaforma politico-culturale si potrebbe, e forse si dovrebbe discutere. In particolare, l’ormai fondativa, per Slow Food, mitizzazione della “tradizione”, con una serie di portati teorici e pratici.
In questa edizione, in particolare, si discuteva di “università diffusa”: per dirla in maniera assai grossolana, l’idea di un superamento, nelle questioni del cibo, della separazione “tra conoscenza accademica e conoscenze tradizionali” (ça va sans dire).
Chi scrive non ha avuto modo di seguire i lavori dedicati a questa impegnativa costruzione, quindi si asterrà doverosamente da ogni valutazione di stretto merito della stessa. Qualche sommaria considerazione, tuttavia, pare possibile già dalla lettura dei documenti introduttivi dell’iniziativa, sulle sue potenzialità e sui possibili “effetti collaterali”. Se per “università diffusa” si intende sostanzialmente l’obiettivo di rendere quanto più effettivo e garantito l’accesso universale (specie a coloro che scontano maggiori ostacoli economico – sociali) al sapere, alle sue fonti e alle sue sedi, a partire dalle università per l’appunto, l’idea non può che risultare pienamente condivisibile; specie se si parla di cibo.
Ancora meglio se a quel fine se ne aggiungono altri, in qualche modo collegati al primo, come la critica del dogma della “neutralità della scienza”, il principio di responsabilità degli scienziati…
Detto questo, tuttavia, non può non evidenziarsi che quel concetto, per come introdotto nei documenti cui si accennava, potrebbe anche risultare parecchio scivoloso, specie in questi tempi. L’idea che il dialogo tra “accademici e non accademici” possa essere sistematicamente “paritetico” per “costruire una reale formazione che vada oltre quella soltanto universitaria”, per esempio, può sembrare un esercizio di retorica assai politicamente corretta.
Col rischio di contribuire al “ridimensionamento” (per dirla in maniera delicata) della conoscenza e del metodo scientifico come strumenti più attendibili di comprensione del mondo reale; in un’epoca nella quale la stessa conoscenza scientifica (anche per sue enormi responsabilità, peraltro) subisce quotidianamente e su scala larghissima poderosi assalti da strumenti euristici “alternativi”, non proprio illuministici. Con effetti civili evidenti.
Tutto questo assume connotati potenzialmente ancor più nevralgici in un paese nel quale, ormai, l’istituzione accademica in sé e gli enti culturali e di ricerca scientifica – come fulcro della creazione e trasmissione del sapere di una nazione, per non dire come fucina di selezione della sua classe dirigente – sono già stati in buona parte soppiantati non proprio dall’università diffusa, ma dalla celeberrima “Università della vita”.
Al netto di questi almanacchi, il Salone del gusto 2018 ha confermato che il cibo è una cosa terribilmente seria, oltre che straordinariamente piacevole, e che oggi esso deve essere un motore di cambiamento, a tutti i livelli. Quel cambiamento, insomma, può e deve iniziare a tavola.