Partiti in cerca di un lavoro. Gli emigranti esistono anche in Italia. Vanno verso il nord del Paese, verso l’Europa, verso l’America. Lasciano la famiglia come a inizio Novecento, con una ideale “valigia di cartone”. Ecco alcune delle loro storie raccontate a valigiadicartone.ilfatto@gmail.com
Sono a Londra, e il guaio dei sogni è che si avverano. Quando torno a Bari vedo le facce di sempre, solo un po’ invecchiate, gli stessi luoghi, solo un po’ più brutti. Sono nato fortunato. Sono cresciuto nel sud Italia, in una famiglia che mi ha amato e sorretto ogni volta che i miei fallimenti mi prosciugavano energia, sicurezza e determinazione. Ho 31 anni e una vita piena di amicizie, vittorie, delusioni, amori infranti e cicatrici, e li sento addosso tutti. Una famiglia benestante ma che ha conosciuto per tutta la vita il valore del termine sacrificio.
Ho avuto la fortuna di studiare, di lavorare per approfondire ciò che studiavo. Di laurearmi a pieni voti con lode in architettura al Politecnico di Bari, una facoltà tanto promettente quanto ingiustamente penalizzata, il cui unico torto è stato per molto tempo quello di riuscire a vedersi solo con l’occhio delle proprie radici mediterranee. Non ho parenti nel settore edile, sono figlio di nessuno e non ho raccomandazioni. Ho speso parte della mia carriera universitaria nel fare il rappresentante degli studenti, cosa che mi ha rallentato e inimicato alcuni docenti, perché credevo nel possibile dialogo fra la lotta studentesca e l’istituzione accademica. Mi sono guadagnato la stima di chi alla fine mi ha ripudiato. A pochi mesi dalla laurea, il salto di qualità, la fiducia, l’opportunità di lavorare a Milano con alcune delle realtà più prestigiose del settore per quattro anni, seguendo progetti e cantieri in Italia, Francia, Germania, Qatar. Ma la realtà è che avevo fame e non era abbastanza. Avevo un sogno, “il sogno”, un giorno, di lavorare a Londra, e di poter trovare aperte le porte di Norman Foster. Nonostante un colloquio andato male sono comunque arrivato a Londra, dove lavoro per un’altra firma mondiale altrettanto prestigiosa di cui mi sento onorato.
Ogni volta che leggo di chi è andato via spesso leggo parole che suscitano amarezza, più che commozione. La mia storia, la mia fame, non nasce dalla rabbia per la disoccupazione, dalla categoria degli architetti in Italia, eterne partite iva che lavorano 17 ore al giorno abbandonate dallo Stato, la cui burocrazia e lentezza spesso finisce per trattarli solo come bancomat per pagare le tasse prima ancora di avere un reddito. Ho visto realtà che mi hanno sempre pagato puntualmente e promosso quando lo meritavo, e personaggetti sfruttatori di poveri neolaureati, troppo accecati da un contesto dalle difficili prospettive per capire che il loro tempo e impegno ha un valore.
In Italia, se sei in gamba e testardo puoi trovare la tua strada. Eccellenza e pressapochismo coesistono in noi, si combattono, è la nostra natura, almeno quanto ingegno e precariato. Il punto è che in Italia si può vivere. Anzi, per me è sempre stata dura andar via e sentirsi chiedere di restare ovunque sia stato. Non sento addosso il peso di una grande rinuncia all’estero per la colazione con il caffè americano piuttosto che con l’espresso, non mi interessano i tabù di chi soffre l’alimentazione non italiana, di chi piange il grigio del cielo piuttosto che il sole e le spiagge, le case piccole e fragili piuttosto che i soggiorni voltati in pietra, il frastuono nevrotico della grande metropoli piuttosto che lunghe passeggiate domenicali nei borghi medievali. C’è una diversa impagabile bellezza in ognuna di queste cose che si rafforza ancora di più nel loro contrasto.
Nella mia storia c’è tanta gioia, ma c’è anche una sofferenza più sottile, latente; c’è commozione quando di ritorno a casa ritrovo una birra e un panzerotto incartato sul lungomare di Bari, e al tempo stesso un profondo fastidio per la voce che subito dopo dice “eh, dove li trovi questi a Londra?”. C’è la bellezza di ritrovare la tua città che ti ha adottato e il fastidio nel notare che è sempre uguale, anzi togliere qualche albero e mettere qualche panca nella strada principale spacca la cittadinanza in due. C’è gioia e dolore nel vedere i tuoi cari, amici o parenti, avere mille vite da raccontargli in pochi mesi che sei stato via e vederli ascoltarti subendoti, immobili, passivi, come se tu fossi un estraneo. E forse lo sei, sei spaccato in due vite che non si conoscono, sperdute fra il fermo e la corsa frenetica, fra passato e futuro.
Perché andare via vuol dire necessariamente scappare da qualcosa? Perché sembra così difficile semplicemente accettare la curiosità, il desiderio di conoscere l’altro, il voler provare a sentirsi “l’altro”, quello che deve migliorare il suo inglese, che non conosce le leggi, che si ritrova colleghi più giovani ma più bravi e con una carriera più avanzata? La curiosità, l’incoscienza, la consapevolezza dei propri difetti è ciò che come paese ci ha fatto vincere le più grandi sfide, e in questo io mi sento più italiano di molti miei connazionali che restano. Il dolore più grande dell’essere andato via dall’Italia per me non è la mancanza del cibo, del caffè, del sole, della disoccupazione. È qualcosa di alchemico, di più generale, una somma di fattori difficilmente identificabili. È scoprire che fuori il mondo va avanti, corre senza sosta, e il tuo paese meraviglioso è spaccato in due fra chi pur di correre lo fa a piedi nudi, senza scarpe, e spesso invece chi ha le scarpe rimane sul ciglio a pulirsele invece di correre. È l’ansia di restare fermi, di perdersi qualcosa di importante. È l’angoscia di sentirsi soli nel proprio desiderio di confronto, la paura di scoprirsi non competitivo o non ancora maturo sotto molti aspetti e la voglia di scoprirlo, è la consapevolezza che al tempo stesso quel posto da cui vieni è il paese in cui hai imparato che non c’è cosa che tu non possa imparare a fare, sfida che tu non possa vincere, fiato che tu non possa sviluppare. Lo hai imparato lì, e sei andato via per non dimenticarlo.
Sarei andato via anche senza la crisi, anche con l’occupazione in crescita esponenziale, anche senza questa regressione culturale e xenofoba allarmante. Per confrontarmi con altre eccellenze, per uscire dalla mia comfort zone, per la mia insaziabile ossessione di spingermi costantemente oltre i miei limiti, per vedere quanto la mia fame valesse l’investimento di un altro paese, le risorse, le economie necessarie ad accogliermi pur dovendo ricominciare tutto daccapo. Per andare più veloce. Per scoprire che in pochi mesi puoi passare dal doverti mettere al passo con i tuoi superiori al dover insegnare come stare al passo ad altre persone di cui sei responsabile. Sarei andato via comunque.
Per sentirmi solo e riscoprire quindi il vero significato delle mie origini, per capire quanto la mia forza di volontà possa portarmi oltre e quanto il mio essere italiano abbia avuto un ruolo in tutto questo. Per pagare il prezzo di lasciarmi alle spalle amicizie vane e amori infranti, ma ripagandomi con amicizie, esperienze e culture stupende in Qatar, Francia, India, Filippine, Giordania, Inghilterra, Cina. Perché l’Italia è un paese bellissimo ma semplicemente non è l’unico, ci sono mille posti e paesaggi e storie nel mondo in cui lasciare un pezzo della propria anima, da vivere, odorare, assaggiare, sudare. Perchè ho il terrore di fermarmi, ma soprattutto perché solo quando cambi il punto di vista sulle cose, la tua linea d’orizzonte si arricchisce.
Mi sento decisamente più confuso e fuori posto di prima e proprio per questo sono convinto che mi stia facendo benissimo. Non voglio smettere di avere fame, ma voglio smettere di avere paura. Dell’altro, del diverso, del più bravo, del più difficile, dello scoprirmi, oltre che italiano, cittadino del mondo, ma soprattutto di avere paura dei sogni.
Perché il guaio dei sogni è che si avverano.
Nicola Boccadoro