La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja ha mandato in fumo (per ora) le speranze e le aspettative della Bolivia di poter riavere un accesso al mare: ha respinto, con 12 voti contrari e 3 favorevoli, le argomentazioni esposte da La Paz per obbligare il governo del Cile a sedersi a un tavolo e negoziare. Una grande delusione e una giornata decisamente amara per Evo Morales e tutti i boliviani, che dalla mattina aspettavano la decisione della Corte, seguendo la seduta su maxi-schermi, con canti e danze popolari: “La lotta del popolo boliviano prosegue – ha annunciato – L’importante in questo momento è che una Corte internazionale abbia riconosciuto che esiste una questione in sospeso con il Cile”. Una vittoria quasi insperata invece per il Cile che ha regalato al gongolante presidente Sebastian Pinera un buon credito di popolarità.
Anche se il procedimento giudiziale dinanzi alla Corte olandese è iniziato nel 2013, quello dell’avere o meno diritto all’accesso al mare è una controversia che va avanti da oltre un secolo tra i due paesi latinoamericani e che ha lasciato un segno profondo nelle relazioni diplomatiche tra i due paesi, interrotte nel 1978 proprio per questa contesa. Dopo la Guerra del Pacifico (1879-1884), la Bolivia perse infatti 120.000 chilometri quadrati di territorio e 400 chilometri di costa che entrarono a far parte del Cile. L’attuale delimitazione territoriale fu fissata con un trattato firmato nel 1904, in cui si affermava che la sovranità cilena si estendeva fino alla frontiera peruviana, e che la Bolivia non aveva accesso al mare. Tuttavia, a quest’ultima, si riconosceva il libero diritto di transito commerciale sul territorio cileno e nei porti del Pacifico in modo perpetuo.
Attualmente, la Bolivia ha accesso al mare dai porti cileni settentrionali di Antofagasta e Arica. Per La Paz, però, il trattato del 1904 è sempre stato profondamente ingiusto e dinanzi alla Corte dell’Aja ha sostenuto che dal linguaggio di alcuni documenti siglati da entrambi i governi (l’Accordo di pace del 1904, uno scambio di documenti avvenuto nel 1951, un memorandum del 1961 dell’ambasciatore cileno Manuel Trucco e la ‘Dichiarazione dell’Algarve del 2000) si poteva desumere l’obbligo legale del Cile di negoziare la sua uscita sul mare. Obbligo che non sarebbe stato rispettato. Santiago ha invece sempre respinto l’accusa, sostenendo che il dialogo nel passato c’è stato, ma come atto di buona volontà e non come riconoscimento di un obbligo pendente.
L’Aja oggi ha rigettato praticamente tutti i rilievi presentati dal team di giuristi boliviani e internazionali sul presunto obbligo (per il Cile) di negoziare, osservando però che “la sentenza non può essere interpretata come impedimento per la continuazione del dialogo e di scambi di punti di vista in uno spirito di buon vicinato, per trattare le questioni relative alla mancanza di sbocco marittimo boliviano”. Un appiglio, quest’ultimo, per il visibilmente deluso presidente boliviano Evo Morales che, pur accettando la sentenza della Corte dell’Aja, ha sottolineato come esista “un invito (da parte dei giudici) a mantenere il dialogo attivo tra i due Paesi”, e che la “Bolivia non rinuncerà mai ad uscire dal suo isolamento, ma continuerà a lottare per avere accesso all’Oceano Pacifico su territorio sovrano”.
Quella dell’accesso al mare sembra essere quasi un’ossessione nazionale per la Bolivia che in tutti questi anni ha mantenuto in attività il corpo della Marina Militare, che ogni anno fa la sua parata sul lago Titicaca, non solo per pattugliare fiumi e laghi, ma per dare un segnale e dimostrare che, quando riavranno accesso al mare, loro saranno pronti. Intanto Evo Morales dovrà spiegare ai boliviani cosa è andato storto e affrontare quanti tra l’opposizione, come Rafael Quispe di Unità Democratica, chiedono un giudizio di responsabilità contro di lui per aver sperperato milioni e milioni vendendo illusioni.