In una recente intervista a due voci di Anais Ginori su Robinson Repubblica con le scrittrici Nadia Terranova e Annie Ernaux quest’ultima ha dichiarato che “senza la vergogna non c’è letteratura”. Prendo in prestito questa suggestione perché sono convinta che senza il sentimento della vergogna non soltanto non ci possa essere la letteratura come atto creativo, ma nemmeno la politica, se intesa come visione e impegno costruttivo.
Per la politica, quella che si fa a livello individuale o collettivo nel segno dell’inclusione, della lotta alle ingiustizie e del cambiamento, il sentimento della vergogna è centrale: vergognarsi, ad esempio, per lo stato delle relazioni tra donne e uomini, caratterizzate ad ogni latitudine dall’iniquità, dalla discriminazione, dalla violenza è un’emozione propulsiva. Mi vergogno di ciò che vedo, quindi mi impegno perché quello che ora è così non lo sia più. Lo faccio per me, nel nome di chi mi ha ispirato e per chi verrà dopo di me: anche se non sono io ad avere creato questa situazione essa mi tocca così tanto e così nel profondo che devo agire.
Più della rabbia, più dell’indignazione o della collera la vergogna muove la voglia di riparare ai danni generati dalla violenza, perché questa emozione non mi fa scagliare prioritariamente contro chi la provoca, ma mi interpella direttamente nell’intimità del mio essere. Mi fa muovere con urgenza, perché vergognarsi è insopportabile e ciò spinge a liberarsi da questa condizione di disagio e malessere. Scrittura, lettura, cinema, arte sono state potenti alleate per dare un senso all’indignazione provata verso l’ingiustizia (e l’ignoranza complice di chi volge lo sguardo altrove pensando che il sessismo non sia un suo problema) perché il nutrimento della cultura e della bellezza che emoziona è necessario mentre si lotta.
Ho incontrato molte donne e uomini che hanno gridato ‘vergogna’ per esprimere la propria alterità nei confronti della violenza, e molti libri sono stati illuminanti: uno tra questi è Stupro a pagamento dell’attivista Rachel Moran, che conoscerò il 9 ottobre a Genova. Figura internazionale di primo piano nell’impegno contro la tratta e nettamente critica nei confronti delle posizioni favorevoli alla legalizzazione della prostituzione Rachel Moran, che collabora in Italia con il gruppo Resistenza femminista, con il suo testo-memoir ha diviso il movimento femminista in Italia. Sui temi nei quali si intrecciano corpo, sessualità, autodeterminazione e denaro (quindi in primo luogo la prostituzione e la maternità surrogata) i conflitti sono molto accesi e difficilmente dipanabili allo stato attuale. Se infatti sulla tratta e sulla prostituzione obbligata c’è accordo nel definirla una violenza, quando non sussiste l’obbligo i fronti si dividono tra chi parla di scelta libera considerandola come un lavoro qualunque e chi pensa che vendere il corpo non possa essere considerata una attività come un’altra.
Rossana Rossanda, appoggiando negli anni 80 la lotta delle attiviste del Comitato delle prostitute di Pordenone le cui portavoce sono state Carla Corso e Pia Covre, affermò che i diritti erano sacrosanti ma che non si poteva parlare di una vittoria per le donne, perché la lotta per fare della prostituzione un lavoro si situava dentro all’orizzonte del capitale e del patriarcato. Molte inchieste e lavori di approfondimento sugli esiti della legalizzazione hanno fatto luce sui lati oscuri di questa realtà. Non sullo sfondo ma centrale nell’analisi femminista è il nodo della sessualità maschile, indagato da anni nei reportage della blogger Ricciocorno: un aspetto che resta spesso in ombra quando si parla con leggerezza e banalità del ‘mestiere più antico del mondo’ senza considerare che è la richiesta, e non l’offerta, il vero problema.