La bufera finanziaria che si è scatenata sui titoli italiani, oltre agli effetti diretti di cui si è diffusamente parlato (l’impennata dello spread ruba risorse preziose a investimenti e servizi, rende meno sostenibile il debito pubblico, incide sui risparmi delle famiglie e sui costi di finanziamento di cittadini e imprese, eccetera eccetera), rischia di produrre delle conseguenze indirette quasi altrettanto dolorose e devastanti per la nostra economia.
Come si era già visto nei giorni di tensione che hanno preceduto la formazione del governo gialloverde e nelle settimane immediatamente successive, il risveglio dello spread ha causato una prima vittima: le banche. Le quotazioni a picco di allora e di oggi si spiegano con due fattori. Il primo è che le banche hanno i portafogli inzeppati di Btp, il secondo è che il nostro sistema bancario non si è affatto ripreso dalla pesante crisi degli ultimi anni ed è ancora lì che si lecca le ferite. A parte la controversa fusione tra Banco Popolare e Bpm, non c’è stato alcun consolidamento settoriale e le debolezze del sistema non si sono affatto attenuate. La ripresa economica ha favorito lo smaltimento dei crediti deteriorati soprattutto per il fatto che al vecchio stock non se ne sono aggiunti di nuovi, come capita invece nei periodi di recessione.
Per contro, le criticità storiche del sistema bancario italiano sono ancora tutte lì: alti costi rapportati a bassa produttività ed efficienza, scarsa redditività, basso livello di innovazione e di capacità competitiva, governance ingessate e vetuste, legami incestuosi con la politica e via dicendo. Queste debolezze unite al peccato “originale” di avere in portafoglio una quota esorbitante di titoli di Stato domestici (160 miliardi di euro in totale e un’esposizione media quasi doppia rispetto agli altri istituti europei) fanno delle nostre banche una vittima predestinata: sono l’anello debole della catena. Ogni movimento in alto dei rendimenti si riflette negativamente sui prezzi dei Btp e dunque sul valore del portafoglio e della riserva di capitale delle banche stesse che viene conteggiata ai fini dei requisiti patrimoniali.
In altre parole, la caduta dei prezzi dei titoli di Stato erode direttamente i ratios patrimoniali delle banche e quelle che non hanno le spalle larghe, che sono lì lì appena sopra il limite obbligatorio, rischiano di essere costrette nei prossimi mesi a varare degli aumenti di capitale in un momento di mercato che non è certo dei più favorevoli. Sono diversi gli istituti che iniziano a boccheggiare ora che lo spread dai circa 130 punti di inizio 2018 si ritrova intorno a quota 300: tra questi anche il Monte dei Paschi di Siena. Martedì 2 ottobre i titoli dell’istituto sono scivolati al nuovo minimo dell’anno (2,01 euro) per poi chiudere a 2,06 euro in calo del 4,28% (con un rimbalzo fisiologico il giorno successivo). Per salvare il Monte, nel 2017 il Tesoro aveva iniettato nelle sue casse 5,4 miliardi dei contribuenti, ma adesso, a questi prezzi, la quota pubblica vale appena 1,59 miliardi con una minusvalenza implicita di 3,8 miliardi di euro. Il risanamento del Monte è là da venire: anche quest’anno la banca ha continuato a bruciare più liquidità di quanta è stata in grado di generarne e i ratios patrimoniali si sono via via abbassati.
Se il quadro finanziario del Paese non migliorerà, un nuovo aumento di capitale diventerà inevitabile e – ammesso e non concesso che la Ue e la Bce consentano al governo di partecipare pro quota – occorrerà trovare altri miliardi di euro per evitare che la banca finisca in risoluzione in un momento in cui le finanze pubbliche non ce l’hanno proprio grassa. Il problema però è che a essere in una situazione difficile non è solo Mps: sono diverse le banche (anche grandi) che potrebbero trovarsi nelle condizioni di dover varare un aumento di capitale tra qualche mese. Dunque, quello che si rischia andando avanti così è che si ripeta la drammatica stagione che ha portato alla risoluzione delle quattro banche regionali (Etruria, Marche, CariChieti e Cari Ferrara) e alla liquidazione di Popolare di Vicenza e Veneto Banca in un momento in cui le risorse a disposizione del sistema sono persino più scarse.
Il paradosso è che questa volta a innescare una nuova crisi bancaria che avrebbe l’effetto di uno tsunami sulla nostra economia non è la mala gestio di un qualche banchiere, ma direttamente la politica economica di un governo che prima di andare allo scontro con la Ue non si è premurato di valutare attentamente i possibili “danni collaterali”. Una sottovalutazione grave che rischiamo di pagare molto cara.