Luca Traini è anzitutto un simbolo. Prima di essere una persona che una serata come tante, in una Macerata senza nulla di particolare, decide di salire in auto. E spara. Spara a sei persone con la pelle scura. Traini prima di essere una persona con i suoi problemi, le sue paure, le sue evidenti fragilità, per me, per noi, è qualcos’altro. E’ l’elevazione a potenza dell’idea, politicamente redditizia, che l’immigrazione in Italia sia in corso un’invasione. Di fronte alla quale l’unica soluzione che viene proposta come percorribile, socialmente sempre più accettabile e premiata da un’ovazione corale sembra l’autodifesa. Possibilmente armata.

Ma questi sono stati anche i giorni del processo a Luca Traini, non il simbolo, ma l’uomo. Che ha commesso un reato che gli ha fruttato una condanna a 12 anni in primo grado. E così l’uomo Traini, davanti al giudice, in un atto di resipiscenza forse incentivato da un conveniente e comprensibile timore del giudizio, si è scusato. E nel tentativo di scusarsi ha raccontato una storia, una narrazione nella quale Traini era ed è profondamente immerso. Quello che Luca dice per scusarsi conferma la Scilla e Cariddi della sua aggressione ovvero sia il lato individuale, la sua storia personalissima, intima e privata di confusione, di paura e di rabbia, ma riprende anche quell’altra narrazione, quella mitica dell’invasione e della necessità di una difesa solipsistica e violenta. Un racconto che non è difficile sentire in varie forme sempre più spesso anche da politici e da amministratori pubblici.

Così Luca dichiara anzitutto che non sente alcun odio razziale “dentro di sé”. E può essere vero. Il concetto stesso gli potrebbe apparire troppo generale, astratto, imponente, con il suo peso capace aggravare la sua posizione penale e morale, di fronte alla sua “comunità fantasma”, avrebbe detto il criminologo Lonnie Athens. Possibile che percepisca perfino confusione e rabbia per quello che potrebbe sembrargli un paradosso, una sorta di ingratitudine, l’uomo Luca Traini, lui che dopo avere sparato aveva vestito il tricolore, aveva fatto il saluto romano, lui che voleva difendere la patria dagli invasori.

Nonostante i colpi di arma da fuoco sparati dall’auto in corsa ai sei ragazzi di colore, nonostante la dedica dell’azione alla ragazza italiana uccisa pochi giorni prima da un delinquente straniero, Luca vuole dire al mondo che lui non è mica matto, che non ha la malattia dell’odio razziale. Si sente pulito, con le idee chiare. E va avanti, spiegando. Non ha sparato a uomini di colore, non cioè “ai negri”, ma agli spacciatori di eroina, che solo incidentalmente avevano pelle nera.

Il nucleo della giustificazione morale di Luca consiste cioè nello spostamento da una categoria sociale a un’altra, che lascia intatta la narrazione interna alla base del reato. Luca esporta, proietta fuori da sé le sue fragilità, evoca una sorella con problemi di droga, e aggredisce non l’assassino della Mastropietro, non lo spacciatore che vendeva droga alla sorella, ma un’estensione di questi, una categoria intera, una “razza”. L’invasore.

E poiché di fronte al pericolo di una lunga condanna comprende che lo straniero non è un nemico sociale abbastanza riconosciuto da rendere lecita l’aggressione e che rischia anzi di procurargli una lunga condanna con l’aggravante dell’odio razziale, allora tocca alzare il tiro, modificare il nemico.

Non basta dire che erano dello stesso colore di pelle dell’assassino di Pamela per evitagli il carcere con anzi l’accusa di essere portatore di “odio razziale”… allora Traini non trova di meglio che, per difendersi, scambiare razza con razza, razzismo con razzismo, neri con spacciatori. Sperando che il giudizio morale, più chiaro ancora, più uniformemente severo nei confronti dello spacciatore di sostanza stupefacente sia sufficiente a giustificare gli spari a casaccio su sei innocenti. Si può giudicare severamente, sembra pensare Traini, chi spara solo a un nero, solo a uno spacciatore, solo, cioè a figli di dei minori?

Così nella ricerca di una “razza” sufficientemente esecrabile da giustificarlo almeno moralmente, di salvarne la dignità e la bellezza sociale, Traini dimentica che così, in un mondo così semplificato da sembrare un fumetto Marvel non esiste più polizia, non più tribunali, non più giudici, non pena, non carcere. C’è soltanto lui, l’uomo che, solo, riassume in sé stesso il danneggiato, il giudice e il carnefice, in una narrazione che oggi suona politicamente e socialmente accettabile, o per lo meno che suona come qualcosa di già sentito tra le righe delle dichiarazioni pubbliche, che appare sempre più come possibile, come giustificabile, come buona. Almeno in astratto. Ma da qualche parte c’è e ci sarà sempre un Luca, con una sorella o un fatto di cronaca da vendicare, e la sua pistola. Strumenti di una personalissima lotta tra poveri, specchio di una società cui oggi conviene vendere una storia tra le più pericolose.

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