Diversamente da quel che Niccolò Machiavelli raccontava all’amico Francesco Vettori nella famosa lettera del 10 dicembre 1513, non mi capita mai la mattina di andare a caccia, di chiacchierare con i boscaioli, di leggere libri d’amore poco impegnativi, né sono solito nel pomeriggio dopo il pranzo giocare “a cricca e a tric trac” e così trascorrere le giornate. Mi capita, invece, di dovermi talvolta intrattenere con certi individui, sul viso dei quali è impressa una tale ingenua volgarità e una tale bassezza del modo di pensare, nonché una tale limitatezza bestiale dell’intelletto, che mi stupisco come mai costoro abbiano il coraggio di uscire con un simile viso e non preferiscano piuttosto portare una maschera. E, quasi sempre, con figuri grotteschi e stravolti, attaccati alla libertà soltanto come garanzia del privilegio.
La sera, tuttavia, pur senza indossare vesti degne di una corte, mi dedico come l’autore del Principe alla mia attività preferita: conversare con gli antichi, ovvero degli antichi leggere i testi. È così che di recente sono tornato alla consuetudine di frequentazione con Giordano Bruno. A offrirmene l’occasione, la rilettura del Candelaio, commedia che – pubblicata nel 1582, quando, sotto il regno dell’ultimo Valois, la teatralizzazione della vita di corte favoriva la commedia italiana – non separa la letteratura dalla filosofia, ma (per dirla con l’autore) “potrà chiarire come certe Ombre delle idee, le quali in vero spaventano le bestie e, come fussero diavoli danteschi, fan rimanere gli asini lungi a dietro.”
In essa, il Nolano, malgrado la sua diffidenza nei confronti del popolo, sembra voler preservare i legami con la comunità umana. Preoccupazione che contrasta con forza col ritratto che egli abbozza di sé: “Si voi lo conosceste, direste ch’ave una fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell’inferno; par sii stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri; per il più lo vedrete fastidito, restio e bizzarro: non si contenta di nulla, ritroso come un vecchio d’ottant’anni, fantastico com’un cane ch’ha ricevute mille spellicciate, pasciuto di cipolla”.
La commedia, peraltro, dal punto di vista drammaturgico, non esalta né la densità né la verosimiglianza psicologica dei personaggi: a condurvi il gioco sono (al contrario) la varietà, la vivacità, la dispersione e la complessità delle peripezie, senza che per un solo istante la coerenza abbia la meglio sul piacere dell’imprevedibile, specchio deformante dei rovesciamenti della vita. Bruno, in fondo, paga il suo tributo a diversi autori del suo paese e del suo tempo: il suo gusto per l’oscenità e l’irreligiosità fa eco sia alle Sei giornate dell’Aretino sia ai Dialoghi piacevoli di Niccolò Franco; i suoi stratagemmi ricordano il Ragazzo di Dolce e la Clizia di Machiavelli; le sue trovate linguistiche evocano le latinizzazioni satiriche del Pedante di Belo e, soprattutto il maccheronismo del Baldus di Folengo.
Valorizzazione drammatica di alcuni suoi fondamenti metafisici, il Candelaio si subordina al De umbris idearum: i suoi protagonisti, il suo intreccio, l’insieme dei suoi elementi drammatici prolungano il discorso inaugurale della filosofia bruniana. Tre le storie che vi s’intessono:
1. quella del vecchio Bonifacio, che, dispiaciuto di non soddisfare più la sua sposa, sebbene incantevole, cerca di sedurre la cortigiana Vittoria, ricorrendo alla poesia petrarcheggiante;
2. quella di Bartolomeo, che spreca i suoi beni in esperimenti alchemici;
3. quella, finalmente, di Mamfurio il pedante, che s’ingegna a parlare senza sosta il latino.
I tre vorrebbero trasformarsi in ciò che non sono: passare, Bonifacio, dall’omosessualità all’eterosessualità; Bartolomeo, dalla ricchezza alla fortuna; Mamfurio, dall’inadeguatezza al riconoscimento intellettuale. Inutile dire che, al termine della commedia, tutti e tre falliscono cadendo nel ridicolo: l’omosessuale cornificato; il candidato all’opulenza depredato, il pedante corretto come fosse un volgare scolaro. E questo perché la loro volontà di cambiamento tiene conto non di quanto va rispettato, ma del suo contrario: si preferisce la cortigiana alla sposa; la dilapidazione all’agiatezza e la pedanteria umanista alla possibilità pura e semplice di comunicare con l’altro.
Per il filosofo del De umbris non ci si trasforma, insomma, che per un atto di conoscenza, il quale deve mettere in relazione l’oggetto e il soggetto sul piano dell’intellegibile, ovvero attraverso le ombre: né Bonifacio né Bartolomeo né Mamfurio hanno a che fare con ciò che permette di accedere a questa metamorfosi di noi stessi, ma restano dalla parte delle tenebre, della cecità. Niente di fortuito, dunque, nel fatto che l’azione vi si svolga nello spazio di una notte.
Sono, al contrario, i personaggi femminili a giocare nel Candelaio un ruolo positivo.
1. Morgana, punto di fuga ironico, rappresenta l’inverso di ogni autorità: contrasta con i dedicatari precedenti, siano essi il papa o Enrico III, così come da qualsiasi altro principe, cardinale, imperatore. Lei è Eros, amore carnale, e anche Thanatos, vivendo ormai “felice nel seno di Abramo”, cioè in paradiso. “Saggia, bella e generosa” condivide da sempre la vita del Nolano, della cui avventura filosofica si trova al centro e dal quale, “in superlativo dotta”, non ha nulla da imparare: fusione di corpo e spirito, sensibile e intellegibile, sembra equivalere a una sorta di coincidenza degli opposti, simile all’ombra delle ombre.
2. La cortigiana Vittoria, dotata di senso pratico, pensa al suo avvenire materiale, ma non smette di monologare sulla diversità umana. “I savi vivono per i pazzi, et i pazzi per i savii. Si tutti fussero signori, non sarebbono signori: cossì se tutti saggi, non sarebbono saggi; e se tutti pazzi, non sarebbono pazzi”; predestinata, insomma, già dal nome, Vittoria sembra soprattutto servire da portavoce filosofico.
Al di là della sua funzione drammatica, personaggio chiave è il pittore-bullo Gioan Bernardo, il quale, servendosi dell’aiuto di ladri e balordi, se ne va in giro a picchiare la gente, compresi gli stessi protagonisti. Egli è lì a ricordare il necessario divenire delle cose: “Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa s’annihila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo”. Si fa beffa dell’impossibile passaggio di Bonifacio all’eterosessualità; denuncia le pretese alchemiche del truffatore Cencio: “Se tu sapessi far oro, non venderesti la ricetta da far oro, ma con essa lo faresti”. Mette in rilievo l’ordine dell’universo e la Fortuna che lo conduce. È in lui, insomma, che si manifesta ancor più la presenza di Giordano Bruno.