Lo script denso, comico e spumeggiante degli over 40 Jeff Pinker, Scott Rosenberg e Kelly Marcel attiva la circuitazione di un classico superhero movie e ne stratifica il senso oltre l’action puro di duelli e inseguimenti. L’universo Marvel aveva davvero bisogno di una star schizoide e autodistruttiva, un po’ meno sicumera da superpoteri e un po’ più alone di sfiga da impossibilità di riscatto e con l'attore britannico l'obiettivo è centrato
Benvenuto Tom Hardy. L’universo Marvel aveva davvero bisogno di una star schizoide e autodistruttiva, un po’ meno sicumera da superpoteri e un po’ più alone di sfiga da impossibilità di riscatto. Venom, di Ruben Fleischer (Zombieland), è l’abito giusto per Hardy ed è anche un film fantastico. Non fatevi fuorviare dalla critica statunitense abituata ad osannare pacchi e doppi pacchi di una produzione seriale Marvel piallata per ottenere riflessi pavloviani.
Venom, il simbionte spin off della serie di Spider-Man, una specie di parassita blob proveniente da un altro pianeta che si impossessa del reporter d’assalto Eddie Brock di San Francisco, rifulge di vita propria in quello che sembra essere il primo capitolo di un programmabile blocco di sequel. Lo script denso, comico e spumeggiante degli over 40 Jeff Pinker, Scott Rosenberg e Kelly Marcel attiva la circuitazione di un classico superhero movie (forza aliena sovraumana, protagonista dropout, villain infimo e cinico) e ne stratifica il senso oltre l’action puro di duelli e inseguimenti (e ce ne sono tanti). La variazione principale di Venom, rispetto agli altri film Marvel recenti, è così quella di dare uno riconoscibile spessore psicologico e sociale al protagonista, di immergerlo in un reale da basso strato urbano fatto di sfruttamento degli indigenti, follia borderline del singolo, “gomplotti” medico-scientifici.
Doppia e parallela la strada geografico-temporale intrapresa fin dall’inizio del racconto. Da un lato la navicella spaziale del ricchissimo cattivo pseudo scienziato Drake (Riz Ahmed, quello di Four Lions, Nightcrawler) che di ritorno sulla Terra si schianta nella Malesia Orientale facendo fuggire un altrettanto cattivo blob-simbionte; dall’altro le segrete sperimentazioni dello stesso Drake effettuate in un mega centro tecnologico nella baia di San Francisco con altri blob-simbionti inoculati nei corpi di poveri homeless. Felpa col cappuccio, jeans, sneakers, borse sotto gli occhi, lo sfigato Brock è uno di quei tizi robusti che potrebbe menare le mani con il vicino prevaricatore o il delinquentello del market ma che ha paura della sua ombra. Chiamato dal suo direttore per andare ad intervistare proprio Drake, per lui che è un impulsivo reporter d’assalto da video su discariche abusive, corruzione, speculazione edilizia modello Striscia, l’obiettivo sarà la classica “marchetta”. Per vie che non stiamo a spiegare comprende però che all’altisonante Life Foundation c’è del marcio: litiga durante l’intervista con Drake, viene cacciato, il suo capo lo licenzia, e la fidanzata (Michelle Williams) lo lascia per un medico più signorile e meno squattrinato di lui. È qui entra in scena Venom, il simbionte anch’esso irascibile e cattivello, che poi risulterà antagonista di quell’altro scappato in Malesia ma in rotta verso la California. Impossessatosi del corpo di Eddie, Venom ne diventerà il suo doppio interiore in un continuo dialogo modello “sento delle voci”, sintesi psicologica di una mutazione fisica repentina e improvvisa che gli permette di far fuori qualunque umano gli capiti a tiro. Peccato però che anche il simbionte malese abbia trovato rifugio nel corpo di un signore feroce e senza scrupoli quanto lui a San Francisco.
Venom, il film, non lascia un minuto che uno di respiro. Non c’è spazio per distrarsi e per aggrapparsi a sottotrame ingombranti. Il nucleo pulsante della visione è questo dimenarsi di Eddie/Venom, fatto di smorfie e contrazioni muscolari che filtrano di continuo sul viso del nostro le sembianze del doppio alieno dall’occhio pallato di bianco e dai lunghi sottili denti aguzzi. Per questo il film è appoggiato tutto sulla credibilità performativa di Hardy, una miscela esplosiva di atleticità e inettitudine, di timidezza/dolcezza alla Clark Kent e di dinamismo ed elasticità da Fantastici quattro, di voracità mostruosa (Venom come marchio di fabbrica stacca testa a morsi) e freno a mano dell’etica da supereroe. In questo Hardy è perfetto. Dondola da un estremo all’altro come un pendolo ossessivo, incapace di sedare la possessione interiore e placare la voce doppia di una coscienza nuova, ricordando un altro capolavoro da lui interpretato come Bronson di Refn (guarda caso Marcel è uno degli sceneggiatori di quel film) dove l’attore dava prova di segni di squilibrio serissimi in uno sdoppiamento di personalità degno di un De Palma touch. Fleischer è comunque un regista che bada al sodo. Ambientato quasi tutto il film in esterni notte nolaniani, la capacità di caricare di ritmo e tensione l’intero racconto, orientando botte e colpi di scena nella dimensione del verosimile superhero anni ottanta/novanta, è da applauso. Anche se poi Fleischer dimostra di essere ultramoderno, a livello VFX, girando una sequenza come la battaglia tra i due simbionti, tutta lame, ferraglia, e corpi che si allungano e deformano che pare di essere tornati in atmosfera cyberpunk alla Tsukamoto. Stan Lee appare per strada con cagnolino al guinzaglio tipo Hitchcock.