di Eugenio D’Auria*
Fra i tanti cimeli kitsch lasciati in eredità da Gheddafi uno dei più emblematici era rappresentato da una carta geografica del continente africano che alla sommità, in corrispondenza della fascia degli Stati nord africani, si trasformava nel volto del Rais libico, all’epoca del suo sogno panafricano che lo portò ad accogliere i “fratelli africani” senza alcuna formalità. Le conseguenze di quella dissennata visione le hanno subite, e le stanno ancora subendo, milioni di africani attirati verso Tripoli dalla speranza di trovare una via di fuga dalla miseria dei loro Paesi. Infatti, le prime difficoltà economiche del modello libico, in coincidenza con la caduta del prezzo del petrolio, comportarono l’espulsione e, in non pochi casi, dei veri e propri pogrom contro i lavoratori africani accusati di aver introdotto in Libia malattie, criminalità e prostituzione.
Soltanto dopo molti anni abbiamo avvertito in Europa i contraccolpi di quelle vicende, con l’esodo biblico di popolazioni desiderose di sfuggire alla trappola del sottosviluppo. E’ anche per tali considerazioni che dovremmo affrontare la questione libica con minore superficialità, con una visione più ampia, che travalichi il miope confronto inter-europeo (in particolare italo-francese) e con un’analisi molto più approfondita delle tematiche sul tappeto.
La responsabilità è ancora più diretta per l’Italia, ex potenza coloniale e partner privilegiato – nel bene e nel male – del regime gheddafiano.
E’ una sfida per il ministro Enzo Moavero favorire un progressivo e faticoso recupero della Libia verso la normalità. Gli ostacoli e gli avversari non sono certamente di poco conto, ma si tratta di una partita dai riflessi molteplici: sulla credibilità della nostra politica estera, sulla questione migratoria e su quella degli approvvigionamenti energetici.
Il nostro Paese ha le risorse, non solo economiche, per aiutare gli amici libici a ritrovare un modello di convivenza sconvolto da anni di guerra civile: vi sono le conoscenze giuste e ramificate in tutte le principali etnie, vi è la nostra esperienza nei meccanismi di tutela delle minoranze, vi è la consuetudine di rapporti fra istituzioni culturali dei due Paesi, vi è infine la strada intrapresa nel 1998 dall’allora ministro degli Esteri Lamberto Dini e successivamente ampliata dal Presidente Berlusconi. Non si tratta di riesumare intese condivise con Gheddafi, quanto di rivitalizzare quelle iniziative che puntavano a migliorare il livello di vita dei libici in settori socialmente rilevanti: sanità, formazione tecnica, istruzione universitaria, assistenza alle istituzioni centrali e regionali del Paese.
Il capitale di contatti accumulato nel corso di decenni di intensi e diversificati rapporti può essere ancora recuperato e rimesso in circolo per ridare stabilità a un Paese che costituisce il punto centrale di una crisi che, partendo dall’area sub-sahariana, insiste sul settore settentrionale del continente e sull’Europa.
Sostenere tale disegno implica peraltro un impegno sinergico di tutte le istituzioni e di tutti i gruppi interessati ad un progetto molto complesso e proprio per questo altamente stimolante. La Conferenza internazionale che avrà luogo il 12 e 13 novembre in Sicilia potrebbe essere il segnale di partenza per avviare un meccanismo di consultazione e confronto mirato a definire una piattaforma programmatica sulla quale confrontarsi successivamente con i libici. Un percorso disseminato di incentivi per il conseguimento di obiettivi intermedi rappresenterebbe un utile strumento per stimolare le diverse fazioni a competere sul piano istituzionale anziché su quello bellico; si innescherebbe così un meccanismo virtuoso capace di portare al graduale coinvolgimento dei diversi gruppi libici in un progetto di ricostruzione nazionale.
Si tratta inoltre di una strada obbligata se vogliamo avviare a soluzione il problema dell’immigrazione in Europa dall’area saheliana. Creare un polo di sviluppo al centro del Mediterraneo porterebbe infatti a convogliare i flussi migratori in zone geograficamente molto più vicine ai punti di partenza e quindi logisticamente più convenienti per i migranti stessi.
Va evidenziato al riguardo che in un tale disegno il coinvolgimento delle popolazioni libiche appare essenziale, considerate anche le prove di maturità offerte dai libici in occasione delle consultazioni elettorali indette negli anni passati. Il percorso democratico – avviato nel luglio 2012, pochi mesi dopo la caduta di Gheddafi – si è inceppato per le ingerenze esterne e perché la questione energetica ha preso il sopravvento su tutte le altre tematiche.
Rimettere al centro dell’attenzione le esigenze di base della popolazione potrebbe favorire invece un graduale ritorno alla convivenza pacifica, essenziale per affrontare i nodi relativi ai futuri assetti istituzionali. Considerato il fallimento del dialogo fra i “signori della guerra” sarebbe utile dare nuovamente voce alla popolazione libica, più interessata al ritorno alla normalità che alla spartizione dei proventi delle risorse energetiche.
*Già ambasciatore in Arabia Saudita