“Un cambiamento epocale e una rottura straordinaria”. Chi non ha dubbi sul successo del MeToo un anno dopo dal lancio dell’hashtag da parte di Alyssa Milano è la presidente della Casa delle donne di Bologna Maria Chiara Risoldi. Perché, se le opinioni sulla riuscita o meno di una campagna che ha voluto rimettere al centro la donna e i suoi diritti sono diverse e contrastanti, lei parte da alcuni dati concreti: “Nel 2018 le donazioni alla Casa delle Donne sono letteralmente raddoppiate”, ad esempio. E mentre “quando abbiamo aperto venivano donne maltrattate da vent’anni, oggi chi arriva ha al massimo due anni di violenza alle spalle”. Risoldi, che è anche autrice del libro #Metoo Il patriarcato dalle mimose all’hashtag” (Antonio Tombolini editore), rivendica “il lavoro capillare fatto dai centri antiviolenza”. “Ovviamente non sono mancate critiche”, continua Risoldi, “tra cui quelle di tante femministe della mia generazione. Ma da persona che si occupa di violenza sulle donne e come psicoterapeuta dico che il problema enorme, rispetto al tema delle molestie sessuali, è proprio quello del silenzio, non quello della denuncia”.
È d’accordo con questa tesi anche la scrittrice, conduttrice radiofonica e attivista Giulia Blasi, autrice del fortunato hashtag #quellavoltache lanciato pochi giorni prima che partisse il #metoo e diventato anche un libro a più voci (“#quellavoltache. Storia di molestie”, Il Manifesto editore). “Nonostante ancora oggi in Italia si valuti più la parola di un uomo che di una donna, nonostante ci siano disegni di legge come quello Pillon per l’affido condiviso, l’America non è lontana, stiamo andando nella stessa direzione e ci arriveremo, con qualche sconfitta e inciampo e speriamo non con troppa sofferenza. Presto ci vergogneremo di cose che oggi ci sembrano accettabili”. E continua: “L’importanza di questo movimento è stato quello di mettere il focus su chi compie certe azioni, piuttosto che invitare le donne a proteggersi e a non mettersi in certe situazioni. Se una vuole fare sesso in cambio di un lavoro si tratta di una scelta libera, anche se io non la giudico una scelta femminista, ma il problema è che per accedere a certi ambienti è considerato scontato ingraziarsi sessualmente gli uomini che controllano soldi e contratti. Un sistema che ti lascia poche possibilità di trovare altre strade, ed è per questo che non sopporto il ritornello per cui ‘potevi fare la commessa’. Tra l’altro la maggioranza delle donne che hanno risposto al nostro hashtag sono proprio commesse, e poi cassiere, infermiere, hostess. Donne che hanno raccontato abusi vecchi di decenni. La sensazione che si ricava è che un posto sicuro per una donna non ci sia mai”.
I rischi (sventati) di processi sommari e vittimizzazione
Più cauta, invece, la sociologa Giorgia Serughetti, autrice di “Libere tutte: dall’aborto al velo, donne nel nuovo millennio” (Minimum Fax). “L’Italia ha resistito alla penetrazione di una cultura in qualche modo più sensibile al tema delle molestie e quindi capace di mettere in discussione schemi di esercizio del potere”. La sociologa romana commenta anche il caso Brizzi: “C’è stato un timido tentativo di rimuoverlo, poi è rientrato in circolo. Certo, è stato scagionato penalmente, ma le voci che lo accusavano, e che non hanno potuto sporgere ufficialmente denuncia perché in Italia il limite temporale è solo di sei mesi, erano molte di più e onestamente era difficile che ci fosse qualcosa di orchestrato. Anche la Trevisan con Tornatore si è trovata tutti contro. Quanto alla lettera collettiva di “Dissenso Comune” penso che certamente abbia colto il segno nel dire che il problema fosse il sistema di potere e non il caso personale, ma forse è arrivata un po’ tardi. E comunque resta il coraggio di chi si è esposto personalmente, rischiando la ritorsione sul lavoro”.
E’ una voce critica anche quella di Ingrid Salvatore, filosofa e docente di Studi di genere, che ritiene “assurda la cacciata di Asia da XFactor dopo l’accusa di Jimmy Bennet in assenza di uno processo”. “Secondo me il #metoo crea troppi vulnus giuridici”, spiega, “perché si parte dal presupposto che chi denuncia abbia ragione in quanto donna. Da liberale, inoltre, credo che il diritto sia qualcosa in cui gli individui contano, per cui non si possono sacrificare, mettendoli pure sulla pubblica piazza, per qualche tipo di vantaggio o efficacia sociale, come ad esempio la speranza che altri denuncino. Che poi, forse, i vantaggi sono minori di quanto si pensi perché se diventa una battaglia ideologica a mio parere perde credito”. Anche Giorgia Serughetti sottolinea come alcuni eccessi, ad esempio la legge “antifischio” in Francia, esprimano “una rinuncia a un cambiamento culturale che prevenga questi comportamenti, mentre se multi un operaio che fischia significa che in un certo senso hai abbandonato una battaglia di tipo politico, affidando al diritto la sanzione degli eventi”. “Ma va anche detto”, continua la sociologa, “che in Italia nessun regime poliziesco del contatto è stato introdotto, anzi non è successo niente. E pure il rischio, che temevo, di una postura vittimaria, ovvero il fatto che le donne cercassero un legame attraverso l’aver subito violenza, si è dimostrato nullo, perché al contrario in quella voce collettiva si è espressa la forza di un rifiuto di sottostare a una sorta di ius primae noctis. Ripeto, capisco la paura che la denuncia possa diventare un modo strumentale per far cadere qualunque testa, per cui chiunque la mattina può alzarsi e fare un’accusa di stupro. Ma il #metoo ha creato un terremoto e non sempre istituzioni, aziende e organizzazioni hanno saputo come rispondere. Probabilmente nel tempo si imparerà anche a capire quali “protocolli” adottare per trattare questi casi”.
I “danni collaterali” di ogni conflitto
Risponde alle obiezioni mosse al #metoo anche Maria Chiara Risoldi: “Capisco il timore di colpire innocenti, ma io uso consapevolmente un’espressione un po’ forte, quella di ‘danni collaterali’. Ci sono danni collaterali nelle guerre e anche in questo caso, quello di un conflitto forte sul patriarcato, è possibile che ci sia stata qualche vittima maschile innocente o qualche donna colpevole di mentire. Ma stiamo parlando di numeri enormi, milioni di donne. Non voglio fare del giustizialismo, voglio regolari processi e voglio che non ci siano innocenti sbattuti in prima pagina, ma cerchiamo di ricordarci che viviamo in una società patriarcale dove ancora una bambina che corre è chiamata ‘maschiaccio’ ed è normale che un marito dica alla moglie ‘zitta tu cretina’. Concludo con un episodio simbolicamente interessante: quest’estate stavo guardano due ragazzini che scherzavano con un’amichetta di dodici anni, dandole pacche sul sedere. A un certo punto lei ha urlato: ‘guardate che ci vi denuncio per violenza’. Ecco, se i bambini ripetono le cose che diciamo, vuol dire che le cose stanno davvero cambiando”.