di Lucio Baccaro, Max Planck Institute for the Study of Societies
Sergio Cesaratto ha scritto un bel libro, Chi non rispetta le regole? (Cesaratto 2018), con l’obiettivo di smontare sistematicamente una particolare lettura della crisi dell’Euro, che assolve completamente la classe dirigente politica ed economica tedesca e scarica per intero la responsabilità sui Paesi della periferia europea. È una lettura moraleggiante, diffusa non solo in Germania, ma anche in ambienti italiani di orientamento liberista. Non è affatto un’invenzione dell’autore. Al contrario, personalmente ho ascoltato diverse volte questo tipo di narrazione quando, nell’autunno del 2013, condussi con Klaus Armingeon una serie di interviste volte a capire in quale maniera funzionari pubblici, politici e sindacalisti tedeschi interpretassero la crisi dell’Euro e le risposte da dare a essa.
La lettura “tedesca” della crisi
Esagerando un po’ (ma lasciando inalterata la sostanza), la lettura della crisi che emerse da quei colloqui in Germania si può riassumere nella maniera seguente: a dire degli intervistati, la situazione dei Paesi della periferia europea era per molti versi simile a quella della Germania nei primi anni 2000. Anche l’economia tedesca languiva in quel periodo in una crisi profonda. Diversamente però dai Paesi del Sud, la Germania scelse di mantenere in ordine i suoi conti pubblici e di introdurre riforme importanti del mercato del lavoro e della protezione sociale (le riforme Hartz).
Sindacati e imprese contribuirono alla ripresa economica accordandosi per flessibilizzare il sistema di contrattazione collettiva, in precedenza eccessivamente rigido, e in questo modo consentirono alle imprese, attraverso la moderazione salariale, di riguadagnare la competitività internazionale persa negli anni immediatamente successivi alla riunificazione. Fu un governo di centro-sinistra, il governo Schroeder, a introdurre le riforme e a esse pagò un prezzo politico molto alto: non fu rieletto, ma si dimostrò capace di anteporre gli interessi del paese agli interessi di parte. Grazie alle riforme fatte, la Germania tornò a crescere in capo a pochi anni.
La storia di solito si concludeva con considerazioni su quel che avrebbero dovuto fare i Paesi della periferia europea. Come la Germania dieci anni prima, anche per questi l’unica soluzione era imboccarsi le maniche e fare le riforme strutturali troppo a lungo rimandate. La loro spesa pubblica era fuori controllo, i mercati del lavoro eccessivamente rigidi, i sistemi pensionistici troppo generosi e in più avevano sprecato l’opportunità dei bassi tassi di interesse forniti dall’Euro nei primi anni 2000. Erano responsabili delle proprie sfortune. Pretendere che i loro debiti fossero ripagati da altri paesi era un abuso. Chiedere alla Germania di rinunciare alla propria competitività duramente riconquistata era come chiedere al Barcellona di giocare senza Messi per fare un favore agli avversari.
Questa ricostruzione veniva fornita, con poche variazioni, da personaggi di diversa estrazione: funzionari del ministero delle Finanze e politici di Cdu e Spd. Gli unici ad avere una lettura differente della situazione erano i sindacalisti di Ver.Di., il sindacato dei servizi, che mettevano l’accento sulla necessità per la Germania di espandere la domanda interna, ma la loro posizione appariva del tutto isolata, ed incapace di incidere sulle scelte politiche.
È esattamente contro questo tipo di narrazione che il libro di Cesaratto si rivolge, ricordando come un’unione monetaria, l’Euro come il gold standard, si regga su “regole del gioco” implicite. Il sistema è sostenibile solo se ci sono meccanismi e strumenti che consentano l’aggiustamento simmetrico in caso di squilibri della bilancia di parte corrente. In particolare, un Paese in surplus dovrebbe consentire ai suoi prezzi interni di crescere più rapidamente dei prezzi dei Paesi in deficit in modo da riequilibrare il tasso di cambio reale (che è dato dal rapporto tra i prezzi interni ed esteri) e attraverso questo l’equilibrio di parte corrente.
Tali meccanismi non sono però automatici, ma dipendono da decisioni politiche. Se, come nel caso della Germania, il Paese in surplus ha un’economia “tirata dalle esportazioni”, il non aggiustamento gli permette di trarre beneficio dalla situazione, almeno per un po’. Dunque una prima conclusione di Cesaratto è che il Paese che ha violato le regole (implicite) di funzionamento dell’unione monetaria è la Germania e lo ha fatto perseguendo scientemente il suo interesse nazionale.