Sicuramente alla Nike qualcuno deve aver già cominciato a chiedersi se i rischi che comporta un uso eccessivo dei testimonial valgano veramente la candela. Perché la vicenda che sta investendo Cristiano Ronaldo in questi giorni ripropone una vexata quaestio mai risolta dalle marche su quanto sia intelligente affidare la propria immagine a personaggi famosi per garantire il prodotto, quando poi questi personaggi possono avere da un momento all’altro proprio un crollo d’immagine per motivi etico-morali.
E questo soprattutto in un momento in cui molti comunicatori furbetti dell’era post-pubblicitaria cercano di trascinare le marche verso una politica di coinvolgimento etico, terreno che non è di loro competenza, perché l’unica cosa di cui le marche dovrebbero occuparsi è di offrire prodotti con good value for money (buon rapporto prezzo/qualità). Punto e basta.
Del coinvolgimento etico (e politico) abbiamo già scritto a proposito della recente campagna Nike con Kaepernick. The Atlantic l’ha commentata citando la profezia fatta nel 1994 da Angela Davis sul pericolo che in un futuro prossimo (e il futuro di allora è già arrivato) le spinte rivoluzionarie avrebbero potuto ridursi a mero trend: “Dove va la moda, lì va la rivoluzione”.
Ovviamente, oggi la Davis avrebbe parecchio da ridire su quanto possa essere sincera la presa di posizione politica di Kaepernick e del suo sponsor Nike. Ma sono cambiati i tempi, le spinte idealistiche di sinistra si sono esaurite e la profezia si è avverata: le marche sono pronte a fingere di schierarsi e a mostrare al pubblico un grande “impegno etico” pur di vendere. Viceversa, i movimenti politici di oggi cercano sponsor per pagarsi le spese di comunicazione. Una pacchia che i comunicatori furbetti di cui sopra definiscono già “nuovo rinascimento“. Finché le marche gli daranno ancora retta.
Ora, con un’inaspettata crisi d’immagine come quella capitata a Cristiano Ronaldo la questione etica, cacciata dalla porta, o almeno lasciata temporaneamente sull’uscio, rientra prepotentemente dalla finestra rimettendo in discussione tutto, col rischio che il testimonial infangato trascini nel fango anche l’immagine “etica” che la marca con Kaepernick aveva appena cominciato a indossare.
Eppure, se mai la situazione dovesse peggiorare, la soluzione ci sarebbe: basterebbe separare concettualmente il testimonial dal prodotto come fece Emanuele Pirella col Pinot Grigio Santa Margherita accostando la bottiglia a un pescecane e dicendo che quel bianco è “Ottimo anche con il pesce più cattivo”. Con uno schema analogo, Nike potrebbe sfruttare ancora una volta l’immagine di Ronaldo dicendo che le sue scarpette offrono comunque la migliore performance perfino nel fango.
Ma è troppo tardi. La pubblicità è morta e non ci sono più i pubblicitari di una volta. Come testimoniano, del resto, gli zombie di Buondì Motta.