La scoperta più drammatica l’hanno fatta con il rientro a scuola. “Pensavamo di aver vinto una battaglia almeno nelle scuole elementari di Montagnana, in provincia di Padova, dove l’anno scorso l’acqua usata era quella dei ‘boccioni’. Adesso hanno ripreso a cucinare i pasti utilizzando l’acqua dell’acquedotto, inquinato dalle sostanze Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche già penetrate nelle falde, che hanno contaminato in profondità. Inoltre, solo a pranzo i bambini hanno le bottigliette d’acqua, se hanno sete durante la giornata devono bere dal rubinetto. Questo è un nuovo scandalo che si consuma sulla salute dei nostri figli”. Patrizia Zuccato, impiegata quarantenne di Montagnana, è una delle “mamme No-Pfas” che da un anno e mezzo stanno combattendo una guerra ostinata, contro i silenzi, la burocrazia, l’insipienza della politica, gli interessi economici. Poco tempo fa si sono accampate per cinque giorni davanti al Tribunale di Vicenza per protestare.
Perché in Veneto c’è un grande inquinamento dimenticato, sottovalutato, invisibile, ma dannosissimo. Ha origine dagli sversamenti nell’area di un’azienda chimica, la Miteni di Trissino (Vicenza), che hanno introdotto nel terreno e nelle falde sostanze perfluoroalchiliche, meglio note come Pfas e Pfoa. Il risultato è che gli acquedotti di tre province venete popolatissime – Vicenza, Padova e Verona – risultano contaminati. Nella Zona Rossa (inquinamento maggiore) i Comuni sono 30, di cui 10 nel Vicentino, 7 nel Padovano e 13 nel Veronese. Nella Zona Arancione i Comuni interessati sono 12, (11 nel Vicentino, uno nel Veronese). Nella Zona Gialla (semplice attenzione) i Comuni sono 45, di cui 12 in provincia di Vicenza, 31 in quella di Padova e due in quella di Venezia.
A luglio il sesto rapporto della Direzione Prevenzione della Regione Veneto ha individuato in Zona Rossa il superamento dei valori per alcune sostanze nel 99 per cento della popolazione. Finora solo un quarto è stato invitato a sottoporsi agli esami. Ma sono già ottomila le persone che devono affrontare un controllo sanitario più approfondito. Sono ottomila osservati speciali sanitari, ma il numero è destinato a crescere. Una situazione esplosiva di fronte alle quali le “mamme No-Pfas” sono diventate un simbolo.
Patrizia Zuccato, chi si salva in questa brutta storia?
“Nessuno, tutti hanno da rimproverarsi qualcosa. Nessuno escluso. Con la nostra lotta cominciata un anno e mezzo fa abbiamo ottenuto risultati importanti, insperati, ma finché la fabbrica non sarà chiusa noi non ci arrenderemo”.
Perché proprio le mamme che abitano a Montagnana, molto lontano da Trissino?
“Per fortuna non ci siamo soli noi. Il nostro è l’unico comune padovano inserito nella zona rossa, perché l’acquedotto pesca più a nord, nella falda inquinata. All’inizio del 2017 abbiamo avuto le prime notizie, quando la Regione Veneto ha annunciato lo screening sui ragazzi dai 14 anni in su. Noi in casa abbiamo cominciato a usare l’acqua minerale anche per cuocere la pasta. Ma ci siamo chieste: e a scuola?”.
A scuola?
“Con che acqua preparavano da mangiare in mensa? Questo volevamo sapere e quali misure avessero adottato a tutela della salute. Siamo partite in poche, poi il movimento è cresciuto, i comitati si sono moltiplicati, pensiamo al lavoro fatto da Medicina Democratica e Legambiente. Abbiamo cominciato a documentarci, studiando anche di notte, consumando giorni di ferie. Volevamo sapere. Abbiamo scoperto che la situazione era più grave di quanto risultasse ufficialmente. E abbiamo cominciato a bussare a tutte le porte, con in mano le analisi delle acque e quelle mediche sui nostri figli. Dai Comuni alla Provincia, dagli ospedali alla Regione, fino a Bruxelles”.
La Regione dice che la prevenzione veneta è un modello di efficienza.
“La nostra prima rabbia è nata dal fatto che non ci hanno informati, non hanno messo i cittadini nelle condizioni di sapere, di decidere come comportarsi. Se usare l’acqua o no. I primi dati della analisi di Cnr e Istituto Superiore della Sanità risalgono al 2013-14 e la Regione venne informata perché attuasse misure di prevenzione”.
Come si sono giustificati del ritardo?
“Non volevano creare allarmismi, non erano sicuri degli esiti… È una risposta agghiacciante. Anche sui pacchetti delle sigarette scrivono che il fumo nuoce alla salute. Noi abbiamo saputo dell’inquinamento da Pfas quando il danno era ormai fatto. Anche in assenza di certezze ce lo dovevano dire. La medicina ha dimostrato che c’è un danno di salute reale”.
Periodicamente la Regione diffonde gli esiti degli screening.
“Sono dati sottostimati, non rispecchiano la realtà. Perché la popolazione viene presa a tappeto, ma è diverso il tempo di permanenza di ciascuna persona sul territorio. Dipende dall’età e da quando sono arrivati. Invece di un’analisi ponderale, viene fatta la media aritmetica, da cui non risulta che ci sono persone con 700 o 1.000 nanogrammi per millilitro di sangue, mentre il range di tolleranza va da 0 a 8 nanogrammi. Chiediamo dati diversi. Ma c’è dell’altro”
Che cosa?
“Il primo organo colpito è la tiroide, avrebbero dovuto fare uno screening mirato innanzitutto di quelle persone e avrebbero trovato subito i casi peggiori. Lo abbiamo chiesto e abbiamo anche chiesto di esaminare i bambini, non solo dai quattordicenni in su. Adesso forse ci daranno retta, e anche questa è una conquista”.
Ma perché hanno lasciato fuori la popolazione più giovane?
“Lo abbiamo chiesto. Risposta ufficiale: perché per la loro età non hanno livelli elevati di Pfas. La risposta vera è un’altra e io l’ho gridato al microfono, in faccia ai funzionari dell’Usl Euganea, durante un’assemblea. Perchè al di sotto sono in età pediatrica e avevano paura dei risultati sui bambini piccoli che sarebbero potuti emergere. Avrebbero creato il panico dei genitori, anche perché non c’era un piano d’azione da proporre”.
La Regione Veneto aveva difeso a spada tratta gli interventi di plasmoforesi e di cambio plasmatico, per rimuovere il sangue contaminato. A dicembre il ministro Lorenzin ha mandato i carabinieri del Nas a Palazzo Balbi, bloccando la sperimentazione.
“Ci hanno detto che quelle metodiche non potevano proporle per i bambini. La scienza ha provato che la pulizia o il cambio del sangue non servono. In Regione dicevano invece che era un successo”.
Da allora ne avete fatta di strada: cosa avete ottenuto?
“Prima della nostra battaglia non esistevano i limiti poi fissati dal governatore Luca Zaia. Non esistevano nemmeno i progetti per realizzare i progetti di acquedotti alternativi, che portino acqua non inquinata nelle case e in tutte le comunità. Dopo il caos che abbiamo fatto anche alcune scuole si sono decise a usare l’acqua comperata in boccioni. Ma pare sia stata una vittoria di Pirro”.
La magistratura indaga, le analisi adesso si fanno. Contro chi vi siete scontrate?
“Un po’ tutti, a partire dai sindaci che non ci ascoltavano, salvo qualche eccezione, per continuare con tutte le altre istituzioni, la Provincia, la Regione Veneto, le strutture sanitarie. Nessuno ha fatto tutto il possibile, anzi, non ha nemmeno fatto il sufficientemente possibile. Per questo durante il presidio di Vicenza abbiamo chiesto che si dimettano tutti i dirigenti, politici, amministrativi e sanitari, che non hanno fatto niente per fermare la Miteni”.
Quando vi fermerete?
“Forse quando la faremo chiudere, come è avvenuto negli Usa con la Dupont, in Ohio, che ha risarcito con milioni di dollari. Intanto la battaglia non finisce mai. Questa estate la Regione ha autorizzato ad entrare in Italia carichi di un nuovo inquinante, il Gen-X, della famiglia degli Pfas. Con la prescrizione che dovessero solo essere lavorati, ma non sversati. Abbiamo fatto le analisi e trovato tracce anche in acque superficiali a 500 metri dal sito Miteni. La Regione ha detto addirittura che era all’oscuro di tutto”.
Obiettivi finali?
“Chiudere la Miteni, che dovrà bonificare il sito, risarcire e pagare tutti i costi. Lo dobbiamo prima di tutto ai nostri figli. E continuare il lavoro in Europa per abbassare fino allo zero i limiti inquinanti tollerati. È vero che i limiti in Veneto adesso sono inferiori a quelli europei, ma bisogna arrivare alla Tolleranza Zero, perché queste sostanze sono tossiche, persistenti e bioaccumulabili. Quando entrano nell’organismo ci rimangono”.