Jair Bolsonaro – ex-capitano dell’esercito, nostalgico del regime militare 1964-85, fautore della tortura e della pena di morte – ha stravinto il primo turno elettorale come candidato Psl (Partido social liberal), un piccolo partito cristiano-nazionalista di estrema destra, ottenendo quasi il 47%. Il sostituto di Lula, Fernando Haddad, ex prefetto di San Paolo, candidato Pt (Partido dos trabalhadores) si è fermato al 28%. Ciro Gomes, ex governatore del Ceara e leader Pdt (Partido democratico trabalhista, i laburisti) ha chiuso in terza posizione, con il 12%. Accedono al 2° turno i primi due.
Analisi di una disfatta
Paradossalmente, sono stati proprio i suoi nemici più agguerriti a favorirgli la volata finale. Cominciando dall’attentatore, un fanatico petista – seguace Pt – che il 6 settembre ha accoltellato Bolsonaro ferendolo gravemente all’intestino e costringendolo in terapia intensiva con colostomia temporanea. Subito dopo il fatto, i sondaggi del candidato Psl sono schizzati dal 22% al 30% facendo scervellare i dietrologi, con elucubrazioni basate sul solito tormentone: cui prodest?
La ciliegina sulla torta l’hanno regalata poi le legioni femministe di Rio de Janeiro, che si sono scatenate il giorno della sua dimissione dall’ospedale attraverso contestazioni e spogliarelli di dubbio gusto, scandalizzando i bacchettoni evangelisti i quali appoggiano il Psl e adorano Marcelo Crivella, pastore/sindaco di Rio. Con inopportuno tempismo, proprio alla vigilia del voto, le loro performance hanno incrementato le quotazioni “bolsonere”.
Al successo reazionario, ha contribuito soprattutto la corruzione dilagante dei partiti di maggioranza, i cui rappresentanti storici sono crollati dopo il disastroso primo turno. Lula è ancora in carcere a Curitiba, impossibilitato a presentarsi come candidato dopo la sentenza definitiva del Tribunale superiore elettorale, che il 1° settembre ha negato la richiesta dell’ex presidente, condannato in 2° grado di giudizio. L’ecatombe ha travolto tutti. Dilma Rousseff è stata sconfitta nell’elezione al Senato. Geraldo Alckmin – ex governatore di San Paolo e attuale presidente Psdb (social-democratici) in seguito alla caduta in disgrazia di Aécio Neves, inquisito per corruzione attiva – ha raccolto un miserrimo 5% dopo esser stato accreditato della vittoria finale e nonostante abbia usufruito di tempi televisivi più lunghi per la sua campagna elettorale, rispetto agli altri candidati.
Il fatto che il suo predecessore non sia ancora dietro le sbarre, poiché protetto dal Foro Privilegiado targato Stf (Supremo tribunale federale) – una sorta d’immunità parlamentare che tutela dalla giustizia ordinaria i politici che rivestono cariche pubbliche – ha tenuto lontano gli elettori da Alckmin, anch’egli coinvolto in una differente indagine. Marina Silva – passata dal PSB (i socialisti) a A Rede, per la quale si presenta in veste di candidata, eterna outsider – è quasi scomparsa, rannicchiata nel suo 1% a minaccia d’estinzione, sebbene la sua fedina penale sia sempre rimasta immacolata.
La disfatta ha falcidiato Pt e Psb anche a livello regionale: questi partiti han perso quasi tutti i governatorati, tranne che negli Stati più poveri – Bahia, Ceará, Paraiba e Piaui – mantenuti grazie ai programmi sociali, oggi ridotti perlopiù a mero assistenzialismo pre-elettorale, nel quadro di una recessione che costringe la classe lavoratrice in condizioni precarie, con un salario minimo mensile di 984 reais (meno di 300 euro) a fronte di un costo della vita ormai incontrollabile. Oltretutto, il tasso-disoccupazione al 12% – che raddoppia per i giovani nella fascia d’età 18-24, con proiezioni di oltre il 50% nel Nord-Est -, rende questa parte del Brasile molto simile al Sud-Italia.
Non è un caso, che Bolsonaro abbia trionfato in ben 16 stati, anche grazie al voto dei settori più indigenti, che sperano di trovare spazio nel programma politico del suo partito. Beffardamente, il successo Psl è paragonabile a quello ottenuto dal Pt di Lula e Rousseff nel 2002, 2006 e 2010, quando i due leader ottennero percentuali oscillanti dal 46% al 48%.
C-Factor
Ciò significa che Bolsonaro abbia già la strada spianata al ballottaggio del 28 ottobre? Non necessariamente. Molto dipenderà da Ciro Gomes, non tanto per il suo striminzito 12% – difatti, anche sommandolo al 28% di Haddad, non arriverebbe nemmeno a pareggiare i numeri dell’ex militare – quanto per la reputazione di cui gode presso i brasiliani onesti. Da prefetto in carica a Fortaleza, migliorò i servizi sanitari e scolastici del Ceará e una volta ministro delle Finanze, abbassò i dazi doganali, riducendo i prezzi dei produttori locali.
Sì è sempre battuto contro la corruzione al disopra delle parti, scontrandosi con Michel Temer, Aécio Neves e lo stesso Lula, del cui governo ha fatto parte. Ha contrastato il neo-liberismo, rifinanziando il credito al consumo, attraverso l’Sps (Serviço de proteção ao crédito). Non sarà facile per lui scegliere tra Haddad, che rappresenta un partito travolto dagli scandali, e un aspirante dittatore come Bolsonaro. Tuttavia, nel gioco della torre, dovrà avere idee ben chiare su chi buttar giù.