Se fossi Claudio Salvagni, difensore di Massimo Bossetti, venerdì prossimo direi queste poche cose ai giudici della Cassazione per sostenere l’innocenza del suo assistito:

“Il dna nel processo è un indizio; un indizio un po’ particolare perché ammette una deroga alla legge. Infatti può vivere da solo e non deve, necessariamente, concordarsi con altri indizi. A fronte di questo trattamento speciale, la prova genetica segue le stesse regole dell’articolo 192 c.p.p. e dunque deve essere grave e precisa. Nel caso di specie: la gravità è implicita nella localizzazione del dna rinvenuto, l’indumento intimo della vittima. Tuttavia manca totalmente la precisione. Infatti: la stessa traccia (G20) presenta, contestualmente, il codice genetico nucleare di Bossetti e quello mitocondriale di un’altra persona (sconosciuta). E ciò non è possibile in natura. A maggior ragione se, come dice l’accusa, l’aliquota biologica utilizzata per le analisi, era ben conservata. In questo caso vi sarebbe dovuto essere anche il dna mitocondriale di Bossetti e ciò perché, questo particolare dna, rispetto a quello nucleare, si conserva per secoli. Ricordate, signori della Corte, il dna delle mummie e dei Romanov? Ecco, quello è il dna mitocondriale, che ha resistito alle intemperie per qualche annetto in più di quello, scomparso, di Bossetti. Peraltro, nel caso dell’omicidio della povera Yara, quella traccia di dna, è anche invisibile e nessuno, se non chi ha repertato la traccia, può attestare che questa si trovasse proprio su quell’indumento, in quella posizione e in quella quantità. Sono gli scherzi della tecnica: aumenta all’infinito le possibilità di analisi, annullando i principi su cui si fonda l’accertamento giudiziario. Per concludere: non si può parlare di precisione, in senso giuridico, a proposito di quell’indizio. Con una sola conseguenza: dover cassare la sentenza impugnata. Grazie, a voi la decisione”. Non una parola in più. Sic transeat gloria mundi.

Il diritto e la soluzione giuridica del caso si fermano qui. Al contrario, in altra sede, dove il ragionamento può cogliere vette diverse, vorrei capire cosa sta succedendo. È ormai una costante: il processo, al pari delle altre “cose” del mondo, cede il passo alla tecnica e alla sua infinita volontà di potenza che, come una slavina, trascina con sé tutto quanto trova di ostacolo al manifestarsi della sua esuberanza, comprese le regole su cui si è fondata l’esistenza.

È il tema filosofico centrale del nostro mondo contemporaneo e anche del mondo della giustizia. La giustizia, se mai desiderasse attardarsi a capire qualcosa di se stessa, dovrebbe riflettere sul suo rapporto con la tecnica. E farlo in modo profondo, evitando di cascare “nella notte dove tutte le vacche sono nere”, per dirla secondo il motto hegeliano, che stigmatizza ogni forma di pseudo-ragionamento. La tecnica, essenza del nostro mondo occidentale post-mitologico, ha uno statuto chiaro e semplice:

1. è autoreferenziale, nel senso che non intende condividere con altri principi (specie se tradizionali) la soluzione di un quesito da risolvere;

2. subordina qualsiasi altro valore ai suoi desideri di illimitata potenza;

3. è iper-accellerativa rispetto al tempo e ciò nel senso che non intende accettare attardamenti tra il suo operare e la soluzione del caso, specie se dovuti all’intervento di categorie valoriali ritenute vecchie e superate;

4. è monologica nel linguaggio e ciò perché non sente altra voce al di fuori delle sue regole operative.

Rispetto a questa potenza dirompente e rivoluzionaria della tecnica, è necessario comprendere la funzione del diritto, sino a oggi valore cardine di ogni consesso umano organizzato e sinonimo di civiltà di una comunità. Per i più, sono solamente due i possibili schemi di gioco del diritto. Il primo: dando al diritto un valore umano-culturale superiore, un ente a cui la tecnica si deve adattare. Il secondo: riconoscendo anche al diritto la natura di tecnica (sull’idea di Kelsen) che, con la nuova tecnica (ad esempio quella scientifica, come nel caso giudiziario) deve collaborare, in un rapporto dialettico di “stop and go”, cioè di alternanza di valori tra le due tecniche.

Questi due schemi, sostenuti dai più, ritengo siano entrambi fallimentari. Il diritto, anche a causa della sua natura marxiana di sovrastruttura, non ha voce in capitolo per risolvere il suo stato di inferiorità rispetto alla tecnica. Seguendo l’una o l’altra delle ipotesi si avviterebbe su se stesso, rinnovando l’immagine della notte “in cui tutte le vacche sono nere”. Infatti il diritto si troverebbe nella condizione del soldato giapponese che si ostina a sbandierare il suo vessillo come fosse un’eterna bandiera di gloria. Quando, in realtà, è oramai uno straccio logoro e sbrindellato.

Attenzione dunque a non fare come quegli avvocati che, ogniqualvolta si trovano dinnanzi a delle situazioni giudiziarie stupefacenti, cercando sempre nella legge la soluzione del mondo, invocano generiche forme di malagiustizia o altrettanto generici psicologismi circa la natura fallace del pensiero umano-giudiziario. La soluzione non può risiedere nel diritto. La soluzione alberga invece nella tanto temuta tecnica e, nella specie, nella crisi della tecnica. Il felice giorno dell’attentato alla tecnica, la tecnica stessa non sarà più percepita come portatrice di verità assolute, ma ipotetiche e fallibili. Il paradiso della tecnica, che getta all’inferno i valori tradizionali, finirà con lo scoprirsi una realtà piena di dubbi come tutte le altre. Solo allora i valori tradizionali potranno tornare a “battere un colpo”.

A te, Claudio, l’onore e l’onere di dare una coltellata alla tecnica. Uccidi la tecnica per dare alla giustizia una tecnica più vera. Puoi farlo solamente dicendo che l’indizio deve essere grave e preciso. Se non è grave e preciso: “les jeux sont fait”. Bossetti deve essere assolto. Ma specialmente, come direbbe Nietzsche, sarà morto una altro dio: la tecnica.

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