La norma che impedisce alle coppie omosessuali unite civilmente di modificare il proprio stato anagrafico, scegliendo un cognome comune, non viola la Costituzione. Lo ha stabilito la Consulta, nella prima decisione su una norma attuativa della legge Cirinnà, il provvedimento che nel giugno 2016 ha introdotto le unioni civili nel nostro Paese. Si tratta, per la precisione, dell’articolo 3 del decreto legislativo numero 5 del 2017, emanato dal governo per dare attuazione alla legge. La disposizione stabilisce che il cognome comune scelto dalla coppia non modifica la scheda anagrafica della persona che lo acquisisce, nella quale resta il cognome antecedente all’unione. La scelta effettuata viene invece iscritta negli atti dello stato civile.
Il pasticcio, però, sta nel fatto che questa norma contraddice un decreto attuativo precedente – il cosiddetto “decreto ponte” del luglio 2016 – che invece permetteva la modificazione dei dati anagrafici. Così circa mille coppie che avevano scelto il cognome comune – magari trasmettendo soltanto quello ai propri figli – se lo sono viste cancellare dai documenti. Una di queste si è rivolta al tribunale di Ravenna, che ha sollevato alla Corte costituzionale la questione se questo annullamento potesse costituire una violazione del diritto fondamentale all’identità.
“Gli spagnoli usano l’espressione ‘uscire dall’armadio’ per indicare il coming out. Questo decreto rimette le persone omosessuali nell’armadio“, ha detto di fronte alla Consulta l’avvocato Stefano Chinotti, legale di Rete Lenford per i diritti Lgbti. Ma i giudici, accogliendo la tesi dell’Avvocatura di Stato, hanno confermato la legittimità del decreto attuativo: la fase transitoria – è il ragionamento – è stata talmente breve da escludere che le novità introdotte in quella fase abbiano determinato l’emersione e il consolidamento di un nuovo tratto identificativo della persona. Il nuovo cognome, dunque, può essere cancellato senza violazione di alcun diritto costituzionale.