di Stefano Sacchetti

Nasce tutto dalla volontà di unire due modi di pensare, apparentemente forti, ma opposti in una sorta di incontro/scontro cinematografico e filosofico. In palio ci sono due visioni del mondo, polarizzate. Uno, ereticamente di destra, che però si è fatto il carcere per aver diffamato De Gasperi e in tempo di guerra ha disertato la Repubblica di Salò. L’altro ereticamente di sinistra, espulso dal Pci per motivi morali, intellettuale poliedrico, traduttore di Eschilo e Sofocle che ha scoperto il cinema a 40 anni girando il cuore delle borgate, sentendosi parte della borgata, rompendo la barriera tra ciò che è conformista e ciò che non lo è.

Pier Paolo Pasolini e Giovannino Guareschi, due figure apparentemente disposte su fronti contrastanti ma unite, in realtà, da una serie di perplessità, manifestate in maniera più incisiva attraverso l’arte, sull’evoluzione che il capitalismo (o più genericamente, la modernità) ha impresso nella società italiana all’inizio degli anni Sessanta.

Il fulcro è il montaggio di immagini di repertorio, tratte da cinegiornali dell’epoca (con titoli altisonanti come Il Mondo Libero), dipinti e scene di vita quotidiana, il tutto scandito dalla lettura di poesie o recita di editoriali. Il prodotto è un documentario in due atti (uno a testa), per volontà del produttore Gastone Ferranti, dal titolo La Rabbia. Rimane in circolazione poco tempo, diventando però un’interessante fonte antropologica attraverso cui sondare gli umori, i gusti, i comportamenti e le tendenze politico-culturali di un mondo, quello occidentale, del quale vengono ritratte le lenti che per decenni ne hanno messo a fuoco i confini, almeno per quel che riguarda il contesto: la cultura comunista e quella cattolica, dimensioni che hanno originato gli schemi interpretativi della realtà, costruito narrazioni e garantito speranza.

C’è una frase di Mario Soldati, che diceva: “Il cinematografo talvolta è arte, ma è sempre industria”. Secondo il filosofo Edgar Morin l’industria, oltre a fornire emozioni preconfezionate, trasforma gli archetipi in stereotipi. Il fulcro del cinema, secondo Morin, è un atteggiamento ambivalente tra la creatività individuale dell’artista (registi, attori…) e le esigenze dell’industria. La chiama “La Fabbrica dei Sogni”.

La Rabbia non mostra sogni, ma una quotidianità che si affaccia sulla storia, ingolfata dal benessere che modella, distorce e confeziona le emozioni. Ciò che accomuna il creatore di Don Camillo al regista di Accattone è l’aver intuito il potenziale distruttivo del progresso tecnologico, visto non necessariamente in chiave luddista ma come dispositivo (per citare Foucault) atto a disintegrare il collante umano dato dalle varie culture preindustriali. Intuivano dunque, all’unisono, il dramma dell’alienazione, intuizione che ha caratterizzato la spinta alla ricerca di diverse fasce del mondo intellettuale di quel periodo.

Pur unendo materiale sociologico, antropologico e filosofico La Rabbia ha un destino commerciale abbastanza sfortunato. Ricorda Tatti Sanguineti (che al lavoro di Guareschi e Pasolini ha dedicato un documentario intitolato La Rabbia 1, la Rabbia 2, la Rabbia 3…l’Arabia): “Il film è sparito subito, l’ipotesi più probabile è che lo abbiano cancellato dalle sale perché la parte di film di Guareschi era violentemente antiamericana”.

La rabbia di cui parla il documentario può essere letta come un sinonimo della frustrazione – sociale ed esistenziale – di fronte ai cambiamenti culturali del boom economico. Perché, secondo Pasolini e Guareschi, la modernità disorienta, scuote, distrugge. È uno spettro, che si aggira per il mondo occidentale e con indifferenza obnubila le coscienze. Su più fronti sono stati definiti due conservatori, Guareschi, tra l’altro, si autodefiniva un reazionario. Hanno però ritratto un sentimento che cambia forme e connotazioni ma rimane pressoché inalterato nei suoi effetti. Non sarebbe un esperimento sprecato se si girasse “Rabbia” attuale.

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