Di Maio sbaglia i congiuntivi, Di Maio è demagogo, Di Maio è populista, Di Maio puzza. Tutti contro Di Maio, i giornaloni, reo di aver voluto la prima finanziaria attenta agli ultimi e non ai benestanti. Certo, qualche ingenuità l’ha commessa. Luigi Di Maio è giovane e ha tutto il tempo per imparare che certi errori vanno evitati: non si arringa la folla dai balconi, non si attaccano i giornali, eccetera, se non altro per non alimentare paragoni – ridicoli – con Mussolini.

Ciò detto, vediamoli da vicino i detrattori del ministro.

Repubblica è stato un giornale importante, denunciava e attaccava con forza: nella loggia P2 c’è Sindona, “Non stupisce – commenta Scalfari – perché Dio li fa e poi li accoppia. Gelli e Sindona sono personaggi della stessa pasta, versati entrambi nell’intrigo finanziario e politico e nell’arte della corruzione” (Repubblica, 10 maggio 1981). È il frammento di una denuncia che scosse la coscienza della nazione. È difficile polemizzare con chi incarna, da mezzo secolo, parte importante del giornalismo italiano.

Così come dispiace prendere le distanze da Michele Serra. Ricordo la mattina in cui arrivai al liceo in sala docenti – primi anni Novanta – col numero di Cuore e la “notizia”: “Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti”. Sublime. Fui circondato dai colleghi e partì un cazzeggio infinito. Bellissimo. E tuttavia negli ultimi tempi qualcosa non va.

Domenica 30 settembre, per esempio, sia Scalfari che Serra attaccano il governo. Legittimo. Ma con quali argomenti? “Quanto all’Italia – dice Scalfari – siamo in un Paese che ha una dittatura non soltanto di fatto (quella c’è già) ma di diritto”. Il Fondatore ha conosciuto la dittatura vera, fascista, che uccise Matteotti, votò le leggi razziali e portò il Paese in guerra e definisce dittatura un governo democratico che aumenta il deficit dall’1,6 al 2,4 per cento. Sbaglio se scrivo che è un’esagerazione?

Di più: è un errore insistere su un “rinnovato” partito della sinistra guidato dai “soliti nomi”, Gentiloni, Zanda, Calenda, Renzi. Molti sono scappati dal Pd proprio perché traditi da questa cosiddetta classe dirigente. Il tema è colto con lucidità da Carlo Feltrinelli: la sinistra “non sempre ha operato per la giustizia sociale, ha tentennato sui principi e spesso li ha traditi” (Repubblica, 28 settembre). È così. Hanno tradito i principi e non ha senso demonizzare i grillini: occupano lo spazio (diritti, equità, eguaglianza) lasciato vuoto dal Pd. Michele Serra dice che “il reddito di cittadinanza è cosa giusta ma i 5Stelle non sono di sinistra” perché sforano decimali di deficit. Non è così: proprio perché è cosa giusta i poveri vanno aiutati (anche) portando il deficit a 2,4%.

Infine. È una brutta pagina l’uscita di Di Maio contro Repubblica, ma anche il quotidiano di Calabresi deve aggiustare il tiro: non si nasconde “l’inchiesta per la soffiata di Renzi a De Benedetti… usata per guadagnare in Borsa 600 mila euro in due minuti”. Roba che Scalfari, quello antologizzato nel Meridiano Mondadori La passione dell’etica, avrebbe fatto esplodere uno scandalo, proprio perché De Benedetti è l’editore di Repubblica. E allora, ecco cinque punti su cui tutti i protagonisti dovrebbero riflettere:

1. Un ministro non può attaccare i giornali. Ha ragione Flores d’Arcais: alle critiche della stampa chi governa risponde con l’azione riformatrice.

2. Di Maio ha peccato d’inopportunità ma ha detto verità più volte riconosciute dalla stampa.

3. Repubblica s’è comporta davvero, spesso, come giornale-partito: governativo con Letta-Renzi-Gentiloni; all’attacco contro i “pericolosi” gialloverdi.

4. A Largo Fochetti non dovrebbero recitare il ruolo di vittime: la solidarietà ricevuta non esclude la critica al modo in cui fanno politica.

5. Contestare un ministro per alcune dichiarazioni non significa disconoscerne l’azione politica: la critica – quando non c’è faziosità – non è un atto ostile.

Sono dati oggettivi e principi di buon senso. Evidenziarli è utile, il buon senso è rivoluzionario se, irrazionalmente, dilaga il tifo per la propria squadra dietro la maschera della neutralità.

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