Secondo le rivelazioni del quotidiano americano, che cita funzionari di Ankara e americani, la Turchia sarebbe entrata in possesso di registrazioni che dimostrerebbero l'assassinio del giornalista per mano dei funzionari di Riyad. Le prove non saranno però diffuse per timore che "si possa rivelare come il governo spii le entità straniere nel Paese"
È stato interrogato come se fosse stata una spia, poi è stato torturato fino alla morte. Le autorità turche avevano annunciato, giovedì, di essere in possesso di prove che avrebbero dimostrato l’uccisione, all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, del giornalista dissidente Jamal Khashoggi. Il Washington Post, il quotidiano con cui il reporter collaborava e che sta portando avanti una campagna per far emergere la verità, dice di aver raccolto le testimonianze di chi a quelle prove ha avuto accesso. Registrazioni audio e video in cui “si può sentire la sua voce, si può sentire come è stato interrogato, torturato e ucciso”, scrive il Wp citando funzionari turchi e americani.
Il governo della Turchia, spiega il giornale americano, non avrebbe però intenzione di diffondere il materiale in suo possesso per timore che “si possa rivelare come Ankara spii le entità straniere nel Paese” e non è ancora chiaro se i colleghi statunitensi abbiano potuto visionare le prove o se ciò che riferiscono non sia altro che un report fornito loro dai turchi. Ciò che raccontano le fonti turche sentite dai giornalisti americani è che, secondo il materiale raccolto, il giornalista saudita, entrato negli uffici diplomatici del proprio Paese il 2 ottobre per delle pratiche relative al prossimo matrimonio, sarebbe stato fermato, interrogato e ucciso all’interno del consolato e solo dopo, come riportato nelle scorse ore, sarebbe stato caricato su un minivan nero dalla squadra di 15 uomini dei servizi sauditi, arrivati a Istanbul appositamente per risolvere la questione, e portato alla residenza del Console, dove al personale era già stato chiesto di andare via in anticipo.
Se le indiscrezioni diffuse dal Wp fossero confermate, quello di Khashoggi diventerebbe uno dei numerosi casi di repressione nei confronti di dissidenti da parte della famiglia reale degli al-Saud e mostrerebbe, così, l’altra faccia del piano di modernizzazione Vision 2030, fortemente voluto dal principe ereditario Mohammad Bin Salman. Un’idea, quella di Mbs, che ha come fine ultimo quello di rendere appetibile l’Arabia Saudita agli investitori esteri, nascondendo ai loro occhi le violazioni dei diritti umani che nel Paese rappresentano ancora una costante.
E proprio alcuni investitori esteri hanno deciso di interrompere o sospendere i propri rapporti con la monarchia del Golfo. Richard Branson, fondatore del colosso Virgin, ha annunciato ad esempio il congelamento di due progetti turistici in Arabia Saudita e lo stop ai negoziati per un investimento di 1 miliardo di dollari nel settore spaziale. Lo riferisce la Cnn: “Se fosse provato quello che si riferisce sul caso, cambierebbe sicuramente la capacità di ognuno di noi, in Occidente, di fare affari con i sauditi”, ha scritto Branson in un comunicato.
Non solo il capo di Virgin, però, ha deciso di manifestare la sua solidarietà alla famiglia del giornalista. Anche Uber, Viacom e l’Huffington Post hanno annunciato che non parteciperanno alla “Davos nel deserto”, il summit dei giganti della finanza e dell’economia Usa in programma a Riyad dal 23 al 25 ottobre. L’evento è patrocinato da bin Salman e si terrà al Ritz-Carlton, lo stesso dove decine di dignitari sauditi sono stati tenuti in isolamento nell’ambito di una “campagna anti-corruzione” voluta proprio dal principe. Ieri, il New York Times aveva annunciato di aver tolto il proprio patrocinio al meeting.