Pare che, dopo la corte insistente a Delrio, il clan dei renziani si sia rivolto a Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e “uomo forte” per eccellenza, uno dei pochi veri “duri” della sinistra.
A me ha sempre ricordato, forse anche per la fisionomia, Bruce Willis in Pulp Fiction, uno che, pur in fuga e ricercato dai gangster, decide di tornare a casa per recuperare l’orologio del padre, dimenticato da Maria de Medeiros sul “piccolo canguro”.
Non solo per il suo lavoro intransigente da ministro degli Interni, mi faceva questo effetto anche prima, quando era l’uomo dei Ds per le faccende spinose. Ho in mente quando D’Alema racconta della notte elettorale del 10 aprile del 2006, di quelle elezioni vinte per una manciata di voti, e dice: “A un certo punto i dati non arrivavano e ho detto a Piero Fassino: mandiamo Minniti al ministero. Poi i dati sono tornati”.
Forse in realtà più un misto fra Mister Wolf e Butch, uno che insomma ha fatto della sua risolutezza la sua fortuna politica.
Non si può dire che non mi piaccia, le poche volte che l’ho incontrato mi ha sempre fatto una buona impressione e anche il suo operato da ministro degli Interni ha molte luci, oltre ad evidenti ombre.
Gli accordi con le fragili autorità libiche andavano fatti, così come vennero fatti a suo tempo con le autorità albanesi per bloccare l’esodo dai Balcani, in questo senso il super ministro è stato l’unico a capire che il Paese non avrebbe più tollerato l’immobilismo della sinistra sul tema dell’immigrazione. Il limite alla politica di Minniti è stato quello di non pretendere che l’Europa si occupasse direttamente della gestione dello smistamento degli arrivi direttamente in Libia.
Facendo un inciso, in questo approccio a metà, individuo due tentativi di suicidio.
Permettere al governo libico di gestire il fenomeno immigrazione attrezzando degli pseudo lager, è un evidente tentativo di suicidio della sinistra, che se abbandona anche la tensione verso i deboli del mondo, può serenamente puntarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto.
Ed è un tentativo di suicidio anche dell’Europa, che se non riesce a svolgere questa funzione, finisce per avvalorare la tesi sovranista della sua inutilità, infilando la testa nella bocca del leone alle porte delle elezioni europee.
Sono convinto però che, con un po’ più di di tempo a disposizione, Minniti avrebbe corretto i suoi errori, con il pragmatismo e la decisione di chi “deve recuperare l’orologio”, a tutti i costi.
Non è quindi per una questione personale, o di sfiducia, che non mi convince la candidatura dell’ex ministro. Quello che non mi convince è l’idea che questo Paese abbia bisogno di un altro “uomo forte” a guidare un delle forze politiche più rilevanti del panorama politico, di un altro che “ci pensa lui”.
Abbiamo già Salvini e abbiamo Grillo a pontificare ogni giorno su tutto, con la sicurezza e l’assolutezza del “me ne frego”. E l’ha già avuto anche il Pd uno così, e non è andata benissimo: quando la gente si è accorta che non poteva risolvere “tutto lui” ci ha messo un attimo a voltargli le spalle, scaricando su di lui tutta la frustrazione e la rabbia del sogno spezzato.
Con tutti questi duri che si contendono lo scettro del machismo, non è che forse è venuto il momento di interrompere l’escalation del livore e fermarsi un attimo a riflettere su una proposta politica alternativa su cui rifondare la sinistra?
Mentre quindi il clan di Renzi si arrovella sulla scelta del candidato “più forte”, io domani vado a sentire Nicola Zingaretti a Piazza Grande.
Nicola mi sembra rappresentare quelli che, come me, si sono stancati dei toni di questo lunghissimo post campagna elettorale, e che, più che di trovare l’ennesimo super-leader, sentono l’urgenza di ridare un’identità e uno scopo al più importante partito della sinistra italiana.
Chi mi vuol fare compagnia può registrarsi qui. Per gli altri, tranquilli, vi tengo aggiornati.
@lorerocchi