Ha creato molto scalpore nel mondo scientifico e tra gli esperti di clima la notizia che nel pianeta le foglie diventano più spesse a causa dell’aumento di concentrazione di CO2, aggravando di conseguenza i cambiamenti climatici. Nonostante siamo a conoscenza degli effetti deleteri del nostro agire, continuiamo a immettere nell’atmosfera un’insostenibile quantità di carbonio e la concentrazione di CO2 ha raggiunto livelli mai visti. Lo scorso ottobre l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) ha certificato che la concentrazione di CO2 in atmosfera ha raggiunto il valore record di 403,3 ppm nel 2016, il 145% in più dei valori preindustriali.
La sottovalutazione e spesso l’ignoranza diffusa dei meccanismi naturali che possono ridurre l’aumento dei gas climalteranti, responsabili della crescita della temperatura nella crosta, nell’atmosfera e nei mari in cui si riproduce la vita, ci fa dimenticare che, prima di arrivare a illuminare il nostro corpo e inondare con la loro energia il mondo vegetale che ha preparato il nostro pianeta ad accoglierci e ad alimentarci, i raggi del sole hanno attraversato l’aria che sta sopra le nostre teste. Lì, nell’atmosfera si è moderato il calore degli astri e il freddo dell’universo, con una funzione determinante della quantità di CO2 in equilibrio come parte di un ciclo naturale in cui emissioni – respirazione, produzione energetica e industriale, rifiuti, agricoltura etc. – e assorbimento – masse arboree, vegetali e alghe marine in particolare – assicurano il mantenimento di un equilibrio energetico il cui indicatore più immediato è la temperatura locale. La vita sarebbe inspiegabile se non ci si rendesse conto della singolarità della Terra, dovuta alla sottile e inconsueta pellicola che la avvolge, al contrario dei miliardi di oggetti “galileiani” inanimati su cui non c’è vita né morte, pur comportandosi dinamicamente ed energeticamente secondo leggi universali “immutabili” che Newton e poi Einstein hanno esteso all’intero Universo.
Ma torniamo allo spessore delle foglie. Tutto ebbe inizio circa cinquecento milioni di anni fa, quando organismi, animali e vegetali iniziarono a differenziarsi; le piante scelsero di non muoversi mentre gli animali optarono per uno stile di vita nomade. Diciamo che noi scegliemmo di fare i migranti, le piante di mettere le radici da qualche parte e non spostarsi da lì. Questa scelta ha implicato per loro la necessità di svilupparsi ed evolversi in maniera insostituibile per il vivente, così da ricavare, dalla terra, dall’aria e dal sole attraverso la fotosintesi (che fornisce energia alimentare e riduce la quantità di CO2 in atmosfera) tutto il necessario perché anche la nostra specie potesse nascere, riprodursi e sopravvivere come parte “omologata” dei cicli naturali alimentandosi entro una finestra energetica stabile e molto limitata, caratterizzata da un intervallo di qualche decina di gradi di temperatura. I nostri principali e indispensabili alleati nella sopravvivenza e nella lotta ai mutamenti del clima sono quindi gli alberi.
Un nuovo studio rivela però che, proprio a causa dell’elevata quantità di CO2 oggi presente, la capacità delle piante di sequestrare carbonio sta diminuendo, diventando le loro appendici più spesse e meno efficienti e ingenerando un cambiamento della temperatura sempre meno adatta alla riproduzione a all’abitabilità degli umani sul pianeta. Lo studio Leaf trait acclimation amplifies simulated climate warming in response to elevated carbon dioxide, condotto da Marlies Kovenock e Abigail Swann ritiene che sia di fondamentale importanza una migliore comprensione di come le risposte della vegetazione ai cambiamenti climatici possano fornire feedback sul clima. Le osservazioni mostrano che le caratteristiche della pianta (forma, spessore e densità delle foglie) sono modificate all’elevarsi della concentrazione di anidride carbonica. Si giunge perfino a suggerire modalità più efficienti di potatura, di osservare la maggior profondità a cui tendono i gambi dei funghi, di notare la maggior difficoltà delle castagne a uscire dal riccio una volta a terra. Infatti, queste “acclimatazioni” delle proprietà vegetali possono alterare l’area fogliare e, quindi, la produttività e i flussi di energia superficiale.
L’adattamento a più elevate temperature di una foglia in risposta all’aumento del biossido di carbonio – nella simulazione si ipotizza un aumento di un terzo della massa fogliare per area – ha un impatto realmente significativo sul ciclo climatico e sul ciclo del carbonio nel sistema terrestre. La produttività primaria netta globale di assorbimento di anidride carbonica diminuisce di una quantità pari alle attuali emissioni annue di combustibili fossili. Si rende pertanto necessario prevedere come gli ammassi vegetali risponderanno alle condizioni ambientali future, così da includerli nelle proiezioni climatiche. Va notato che l’attuale patrimonio arboreo del pianeta, secondo uno studio del 2017, avrebbe la capacità di ridurre l’emissione di sette miliardi di tonnellate di CO2 all’anno entro il 2030.
C’è anche una componente di risparmio energetico di sicuro peso: gli alberi creano una “bolla di penombra” e le chiome vegetali intercettano la radiazione solare, determinando una temperatura radiante delle superfici ombreggiate inferiore a quella delle superfici esposte alla radiazione diretta. Ogni albero adulto può traspirare fino a 450 litri d’acqua al giorno e per ogni grammo di acqua evaporata sottrae 633 calorie dall’ambiente, producendo un abbassamento di temperatura (locale) equivalente alla capacità di cinque condizionatori d’aria di piccola potenza. Piantare alberi, ampliare boschi e foreste, non cementificare e evitare gli incendi significa mitigare il cambiamento climatico in atto e, quindi, ora lo sappiamo, agire perché le foglie non cambino spessore.
L’Accordo di Parigi ha dato un ruolo centrale alle foreste, alle foglie, alla rete collaborativa con cui le piante si sviluppano e si consolidano (chiedetevi come mai i frutti maturino negli stessi giorni e i funghi spuntino nelle stesse settimane in tutto l’arco alpino). Gli ecosistemi terrestri, ed in particolare le foreste, sono parte della causa e parte della soluzione del problema dei cambiamenti climatici. Causa perché la deforestazione (soprattutto tropicale) è responsabile di circa il 10% delle emissioni antropiche di gas serra a livello globale. Soluzione perché già oggi le foreste assorbono circa un terzo delle emissioni antropiche globali di CO2 .
L’insieme dei Paesi dominati dalle foreste, secondo una contabilizzazione che le giudica “prevalenti” nel territorio – Paesi Lulucf – potrebbe con adeguata manutenzione e realistica implementazione passare da essere una fonte netta di emissioni (come lo è stato nel periodo 1990-2010) a diventare assorbitore netto di CO2 entro il 2030, arrivando a fornire il 25% degli obiettivi di riduzione delle emissioni a livello globale. A due condizioni: che vengano finalmente erogati supporti tecnologico-finanziari ai Paesi in via di sviluppo e che le foglie non si ispessiscano troppo.