Carissimo José Saramago, ti andrebbe di venire in un’aula di giustizia italiana? Ho pensato a te perché sei stato un artista e un letterato talmente eclettico che riusciresti certamente a trovare una chiave di lettura che non sia la solita analisi giuridica, fatta dagli avvocati e dai giuristi. Devi sapere che il difetto dei tecnici di una materia è quello di essere chiusi nel loro ragionamento specifico e di non riuscire a trovare uno spunto diverso, realmente capace di spiegare perché accadono certe circostanze.
Ho pensato di chiedere aiuto a te e al tuo genio perché mi ha colpito una frase che hai pronunziato a Toledo nel 1999, presentando un tuo romanzo. La frase è questa: “Oggi come non mai stiamo vivendo nella caverna platonica, dove gli uomini scambiano per reali le immagini che scorrono loro davanti. Oggi come non mai, infatti, confondiamo la realtà con le ombre”.
Caro José, in questi giorni, persino la scienza – dominata dalla sua versione efficientista, cioè la tecnica – diventa “ombra” o idolo, come avrebbe detto un altro nostro amico di qualche secolo fa, cioè Francesco Bacone. Ti voglio raccontare questa cosa incredibile. Si sono svolti, nelle aule di giustizia penale, due processi che hanno coinvolto l’opinione pubblica di tutto il Paese. Due gravissimi omicidi: l’uno a danno di una ragazzina trovata morta in un campo vicino a Bergamo e l’altro che, per il numero di morti, è stata addirittura ridefinita “la strage di Erba”.
Le conoscenze scientifiche più all’avanguardia sono state decisive per risolvere i due casi. Mi riferisco al dna. Come certamente sai, si tratta del patrimonio genetico esclusivo di ogni persona. È un po’ come la firma dell’assassino sul luogo del crimine oppure, se il dna della vittima viene rinvenuto “addosso” al sospettato, è come se quest’ultimo si fosse inavvertitamente portato con se la targa della sua azione delittuosa. Fantastico, mi dirai. Sì certo, non hai torto. A un patto però, e cioè che quella firma sia leggibile e non si trasformi nelle immagini che il vecchio Platone giudicava come apparenti o irreali, ancorché lette come vere e certe.
Ebbene, in entrambi i casi giudiziari, la traccia del dna, che è stata ritenuta decisiva per la condanna, non è stata vista da nessuno, se non da coloro che dichiarano di averla repertata e dal tecnico che l’avrebbe analizzata. Non ti dico dalla difesa: questa non ne ha mai saputo nulla, se non ricevere a posteriori il risultato che incastra l’accusato. Ma persino il pubblico ministero ha dovuto recepire il risultato dell’analisi e, se avesse chiesto di vedere un’immagine della macchia, si sarebbe sentito rispondere che questa era presente al momento del test con delle speciali tecniche, ma non a occhio nudo. Quindi nulla; bisogna fare un atto di fede sul risultato.
Capirai benissimo che gli avvocati parlano di violazione del contraddittorio, di prova incerta, di violazione del diritto di difesa. Ma tutto questo diventa un sermone inutile dinnanzi al risultato e cioè la soluzione “certa” della tragica vicenda, che garantisce il carcere a vita una persona. L’avvocato e il giudice si trovano, in questo modo, immersi nella caverna di Platone, incatenati e del tutto inermi dinnanzi a tutto questo. Non mi rispondere che la scienza è nata con Bacone, Galileo e Newton e da allora si fonda sul metodo sperimentale e dunque sulla possibilità di verificare ciò che si vuole sostenere. Poveretti, se li chiamiamo in causa, non potrebbero mai credere che nelle aule di giustizia, negli anni Duemila, viene chiamata scienza questa ombra.
Forse il termine corretto l’ha proprio usato quel Bacone di cui ti dicevo prima e che certamente è caro anche a te: l’idolo. Ho il timore che siamo dinnanzi alla scienza e alla tecnica utilizzate, non come avrebbero voluto Galileo e tutti gli altri scienziati che gli sono succeduti, ma come idoli e quindi come dei totem idolatrati e onorati come divinità ma che, in realtà, sono solamente “false nozioni che sono penetrate nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso assediando le menti in modo da rendere difficile l’accesso alla verità”. Così diceva Bacone e così verrebbe da dire anche a me.
Voglio anticiparti, perché sono certo che mi dirai che le regole di diritto ci sono per evitare queste prove-ombra; è vero. Ci sono e sono tante, nella Costituzione e nel codice di procedura penale. Ma non importa. La tecnica è diventata indiscutibile, anche se quelle regole vorrebbero un diverso sistema di interpretazione. Perché il mondo di oggi è in totale adorazione della tecnica, che non si discute e non si prende il tempo per discuterla. Conta solo il risultato, qualunque esso sia. Forse la speranza è quella che è impressa in un’altra tua celebre frase: “Se daremo tempo al tempo, arriverà sempre il giorno in cui la verità diventerà menzogna e la menzogna si trasformerà in verità”.
Spero di non averti disturbato con questo mio sfogo, così come spero che Bacone, Newton e Galileo non se la prendano per averli tirati in causa; perché potrebbero non credere che le loro grandi scoperte sul metodo per raggiungere la verità siano fatte così a pezzi per far trionfare ombre chiamate scienza.