“Garofoli spieghi, o si dimetta“. Poche righe, lapidarie quanto un cartello: il M5S chiede la testa del capo di Gabinetto del ministro Tria, Roberto Garofoli, presunto autore della norma che destina risorse alla Croce Rossa apparsa alla vigilia del Decreto fiscale, senza che nulla sapessero il premier Conte e tutti i suoi ministri, che pure erano chiamati a firmarlo. A chidere il passo indietro di Garofoli sono stati, tra gli altri, Vittoria Baldino ed Elio Lannutti. In serata però lo stesso ministro Giovanni Tria interviene a difesa di testo e dirigente finiti nel mirino dei Cinque Stelle. In una nota, il titolare di via XX Settembre spiega che “quei soldi sono per pagare il Tfr ai dipendenti” e che “l’esigenza era stata condivisa con il ministero della Salute e sottoposta alla valutazione della Presidenza del Consiglio“. E dunque, risulta “del tutto privo di fondamento e irrazionale l’attacco rivolto al Capo di Gabinetto del Mef, Roberto Garofoli, e al Ragioniere Generale dello Stato, Daniele Franco”, in merito ai provvedimenti relativi alla CRI.
Una versione assai diversa da quelle, convergenti, fornite da chi era presente al pre-consiglio dei ministri di domenica scorsa, con il premier Giuseppe Conte che legge le ultime bozze del decreto e si accorge di un “articolo n.23” che non aveva mai letto prima, come pure i suoi ministri e sottosegretari. Il testo assegna 28 milioni di euro di fondi l’anno per tre anni alla gestione commissariale della Croce Rossa, ente ufficialmente in liquidazione coatta da gennaio. Sono tanti soldi, atteso che meno di un mese fa un decreto ha sbloccato 117 milioni per questa partita attinti dal Fondo Sanitario Nazionale.
Conte chiede l’origine della norma, nessun ministro la rivendica, neppure quello della Salute Giulia Grillo, che pure ha compiti diretti di vigilanza sulla Cri. Il giallo si scioglie solo quando Garofoli, grand commis di molti governi, spiega che effettivamente è stata scritta in sede di Ragioneria Generale dello Stato dopo un’interlocuzione con l’ente. Versione ribadita a sera in una nota del Mef che difende bontà e necessità della norma.
Il Ministero sostiene che l’articolo incriminato in parte nasca dall’esigenza di rimediare a “profili di ambiguità” e “lacune” nel decreto che nel 2012 ha fissato in 117,13 milioni di euro la “dote” massima per la riorganizzazione della Croce Rossa, somma poi effettivamente stanziata a metà settembre: all’Associazione CRI è assegnato l’importo di 60.089.085 euro per il finanziamento della convenzione fra Mef e ministero della Salute, alle regioni 24.004.637 euro a titolo di finanziamento per l’anno 2018 dei trattamenti economici del personale trasferitosi presso gli enti del Servizio sanitario nazionale; all’ente in liquidazione sono arrivati 15.190.765 di euro per analoga voce.
Avanzavano 17.845.706 euro che sono stati accantonati, rinviandone a successivi atti l’eventuale assegnazione. E l’atto di assegnazione è prontamente arrivato, con la Ragioneria dello Stato e il Mef che intravedono nel Decreto Fiscale la prima occasione utile, e scrivono – qui il punto delicato di tutta la storia – la norma che ne destina 28,1 milioni l’anno per tre anni proprio alla gestione commissariale. Ora il ministro dell’Economia in persona assicura che “la proposta normativa, come sempre accade, è stata sottoposta alla valutazione della Presidenza del Consiglio ed è volta a dare soluzione a un’esigenza rappresentata al MEF in modo ripetuto dal Commissario liquidatore e dal Ministero della Salute“.
In una nota i sindacati Fp Cigil, Cisl Fp e Uilpa rimarcano come quei fondi non siano un “regalo” all’ente in liquidazione, ma “una soluzione tecnica, ad invarianza di spesa per la finanza pubblica, individuata dai competenti uffici del Mef per garantire la tutela previdenziale dei lavoratori”. Anche se, in vero, il riparto delle somme riproposto da Tria dice chiaramente che quasi la metà del nuovo stanziamento, per totali 18 milioni in tre anni, sarebbe andata a coprire “spese di funzionamento“. Il punto, in ogni caso, è che la “soluzione tecnica” si è materializzata all’ultimo nel decreto fiscale su cui il premier e i ministri avrebbero messo la firma l’indomani. E che tanto era stata “condivisa”, che hanno preferito non farlo.
Palazzi & Potere
Decreto fisco, M5S chiede le dimissioni del capo di Gabinetto. Ma il ministro Tria difende lui e la norma per la Croce Rossa
Dopo i retroscena sul preconsiglio dei ministri, in cui il premier Conte si è accorto di un articolo mai apparso prima, deputati e senatori del Movimento chiedono al grand commis di chiarire o di lasciare l'incarico. Tria in persona fa quadrato attorno al dirigente: "Norma era diretta a pagare il tfr ai lavoratori, come richiesto dal Ministero della Salute". Ma 18 milioni vanno in "spese di funzionamento"
“Garofoli spieghi, o si dimetta“. Poche righe, lapidarie quanto un cartello: il M5S chiede la testa del capo di Gabinetto del ministro Tria, Roberto Garofoli, presunto autore della norma che destina risorse alla Croce Rossa apparsa alla vigilia del Decreto fiscale, senza che nulla sapessero il premier Conte e tutti i suoi ministri, che pure erano chiamati a firmarlo. A chidere il passo indietro di Garofoli sono stati, tra gli altri, Vittoria Baldino ed Elio Lannutti. In serata però lo stesso ministro Giovanni Tria interviene a difesa di testo e dirigente finiti nel mirino dei Cinque Stelle. In una nota, il titolare di via XX Settembre spiega che “quei soldi sono per pagare il Tfr ai dipendenti” e che “l’esigenza era stata condivisa con il ministero della Salute e sottoposta alla valutazione della Presidenza del Consiglio“. E dunque, risulta “del tutto privo di fondamento e irrazionale l’attacco rivolto al Capo di Gabinetto del Mef, Roberto Garofoli, e al Ragioniere Generale dello Stato, Daniele Franco”, in merito ai provvedimenti relativi alla CRI.
Una versione assai diversa da quelle, convergenti, fornite da chi era presente al pre-consiglio dei ministri di domenica scorsa, con il premier Giuseppe Conte che legge le ultime bozze del decreto e si accorge di un “articolo n.23” che non aveva mai letto prima, come pure i suoi ministri e sottosegretari. Il testo assegna 28 milioni di euro di fondi l’anno per tre anni alla gestione commissariale della Croce Rossa, ente ufficialmente in liquidazione coatta da gennaio. Sono tanti soldi, atteso che meno di un mese fa un decreto ha sbloccato 117 milioni per questa partita attinti dal Fondo Sanitario Nazionale.
Conte chiede l’origine della norma, nessun ministro la rivendica, neppure quello della Salute Giulia Grillo, che pure ha compiti diretti di vigilanza sulla Cri. Il giallo si scioglie solo quando Garofoli, grand commis di molti governi, spiega che effettivamente è stata scritta in sede di Ragioneria Generale dello Stato dopo un’interlocuzione con l’ente. Versione ribadita a sera in una nota del Mef che difende bontà e necessità della norma.
Il Ministero sostiene che l’articolo incriminato in parte nasca dall’esigenza di rimediare a “profili di ambiguità” e “lacune” nel decreto che nel 2012 ha fissato in 117,13 milioni di euro la “dote” massima per la riorganizzazione della Croce Rossa, somma poi effettivamente stanziata a metà settembre: all’Associazione CRI è assegnato l’importo di 60.089.085 euro per il finanziamento della convenzione fra Mef e ministero della Salute, alle regioni 24.004.637 euro a titolo di finanziamento per l’anno 2018 dei trattamenti economici del personale trasferitosi presso gli enti del Servizio sanitario nazionale; all’ente in liquidazione sono arrivati 15.190.765 di euro per analoga voce.
Avanzavano 17.845.706 euro che sono stati accantonati, rinviandone a successivi atti l’eventuale assegnazione. E l’atto di assegnazione è prontamente arrivato, con la Ragioneria dello Stato e il Mef che intravedono nel Decreto Fiscale la prima occasione utile, e scrivono – qui il punto delicato di tutta la storia – la norma che ne destina 28,1 milioni l’anno per tre anni proprio alla gestione commissariale. Ora il ministro dell’Economia in persona assicura che “la proposta normativa, come sempre accade, è stata sottoposta alla valutazione della Presidenza del Consiglio ed è volta a dare soluzione a un’esigenza rappresentata al MEF in modo ripetuto dal Commissario liquidatore e dal Ministero della Salute“.
In una nota i sindacati Fp Cigil, Cisl Fp e Uilpa rimarcano come quei fondi non siano un “regalo” all’ente in liquidazione, ma “una soluzione tecnica, ad invarianza di spesa per la finanza pubblica, individuata dai competenti uffici del Mef per garantire la tutela previdenziale dei lavoratori”. Anche se, in vero, il riparto delle somme riproposto da Tria dice chiaramente che quasi la metà del nuovo stanziamento, per totali 18 milioni in tre anni, sarebbe andata a coprire “spese di funzionamento“. Il punto, in ogni caso, è che la “soluzione tecnica” si è materializzata all’ultimo nel decreto fiscale su cui il premier e i ministri avrebbero messo la firma l’indomani. E che tanto era stata “condivisa”, che hanno preferito non farlo.
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Roma, 19 mar (Adnkronos) - "Giorgia Meloni è fuggita di nuovo, non la vedevamo dal dicembre scorso e le volte che si è palesata in aula si contano sulle dita di una mano. Si è chiusa per mesi nel silenzio imbarazzato di chi non sa cosa dire o non vuole dire cosa pensa". Lo ha detto Elly Schlein alla Camera.
Roma, 19 mar (Adnkronos) - La Lega "ha sostanzialmente commissariato la presidente Meloni dicendo che non ha mandato per esprimersi al Consiglio Ue". Lo ha detto Elly Schlein alla Camera.
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - "Nessun impegno, nessun nuovo modello e nessuna certezza su occupazione e investimenti. Oltre i modi garbati di Joh Elkann non c’è nulla di nuovo". Lo affermano Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli di Alleanza Verdi Sinistra.
"Abbiamo chiesto - proseguono i due leader di Avs - a John Elkann di fare davvero il Presidente e il Ceo dell’azienda che dirige. Solo lui potrebbe e dovrebbe dare garanzie concrete su investimenti e occupazione in Italia. Dal 2014 ad oggi il settore ha perso 15mila lavoratori, con un danno sociale ed economico enorme per il paese. Vogliamo riportare le produzioni delocalizzate in Italia, come quella della grande Panda in Serbia, interrompendo il trasferimento degli stabilimenti all’estero. È inaccettabile che Stellantis continui a produrre modelli di grande diffusione lontano dal nostro Paese utilizzando l’immagine made in Italy solo per gli spot".
"Chiediamo un progetto industriale chiaro, che preveda investimenti definiti, nuovi modelli da realizzare in Italia e precise garanzie sul fronte produttivo e occupazionale. Tocca costatare che anche oggi non è arrivata nessuna risposta sulla Gigafactory di Termoli, sul reshoring delle produzioni trasferite all’estero, così come la fine della spinta alle delocalizzazioni, che impoveriscono il nostro tessuto industriale. L’audizione di oggi evidenzia anche - concludono Bonelli e Fratoianni - l’inadeguatezza del governo Meloni, più impegnato a fare la guerra alla transizione ecologica che a investire seriamente nelle infrastrutture necessarie, come le stazioni di ricarica e le Gigafactory. La destra non capisce che, se l’Europa non procederà con determinazione verso l’elettrico, sarà schiacciata dai colossi globali come l’americana Tesla e la cinese Byd. Serve una politica industriale lungimirante, non la difesa di modelli ormai superati".
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - "Oplà! L’ennesima giravolta di Giorgia l’Influencer è servita". Lo scrive Matteo Renzi sui social postando una dichiarazione del 2016 della premier Giorgia Meloni. "Sull'Europa avevano le idee più chiare nel 1941 i firmatari del Manifesto di Ventotene, detenuti in carcere", disse Meloni parlando di Renzi, Hollande e Merkel.
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - "Criticare un Manifesto è legittimo. Non rispettare la storia di ha dato la propria vita è un errore, ma questo non è accaduto". Lo ha detto in aula Maurizio Lupi di Noi Moderati nelle dichiarazioni di voto dopo le comunicazioni delle premier Giorgia Meloni. "Rispettare la storia non vuol dire non avere la libertà o la legittimità di criticare contenuti e idee diverse dalla propria storia, questo è il sale delle forza della democrazia".
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - “La presidente del Consiglio che rinnega i valori della Costituzione sulla quale pure ha giurato: come si può? Come si possono insultare i padri non solo dell’Europa ma anche della nostra patria? Non è solo un’anti europeista che getta la maschera, e su questo avevamo pochi dubbi visto che la sua idea di Europa è più quella di Orban che la nostra ,il fatto più grave è che Meloni, con il suo discorso sul manifesto di Ventotene, insulta la storia e la memoria del nostro Paese". Così in una nota l’eurodeputata del Pd, Irene Tinagli.
"Mi voglio augurare che i vertici delle istituzioni, i presidenti di Camera e Senato in primis, vogliamo intervenire a tutela della democrazia, duramente contestata da chi dovrebbe governare l’Italia ed invece la oltraggia. La verità è fin troppo banale: all'Europa libera e unita, la Meloni preferisce l’autoritarismo di Orban e la sudditanza a Trump”.
Roma, 19 mar (Adnkronos) - "Abbiamo assistito all'ennesimo show della influencer Meloni, dopo un intervento scialbo, il grande colpo finale, l'attacco al Manifesto di Ventotene, preparato da giorni con giornalisti amici e le Tv, che serve per stare sui giornali per il Manifesto di Ventotene anzichè per le divisioni della maggioranza o la mancanza di una linea chiara di questo governo". Lo ha detto Maria Elena Boschi in aula alla Camera.
"Penso che abbia mandato di traverso il pranzo al presidente Mattarella, che ha anche ricordato che il Manifesto di Ventotene è un punto di riferimento nella costruzione europea", ha aggiunto la capogruppo di Iv a Montecitorio, che tra le altre cose ha sottolineato: "La Lega ha linea chiara, e l'ha detto: lei no ha mandato per andare al Consiglio Ue".