Ci sono 25 paesi al mondo in cui le persone imparano velocemente, le aziende innovano e l’istruzione galoppa. L’Italia è 31ma, esattamente come lo scorso anno. Quanto siamo competitivi in termini di economia globale è chiaramente scritto nel Global Competitiveness Report 2018, consultabile online in versione integrale a questo link.
La grossa novità di quest’anno è che il World Economic Forum ha cambiato le carte in tavola, e adesso la valutazione di ogni singolo Stato non è più determinata solo da elementi tradizionali come il PIL e il tasso di crescita economico, ma concorrono in gran parte gli elementi della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale” (4IR). La digitalizzazione, la capacità di innovare, il dinamismo delle imprese, la qualità e quantità dell’istruzione entrano di prepotenza nella valutazione della capacità di un Paese di competere.
Guardando solo all’innovazione l’Italia si piazza al 22mo posto, se teniamo in considerazione solo i “distretti imprenditoriali d’eccellenza” scaliamo la classifica fino al quarto posto, guardando solo gli “istituti di ricerca di qualità” siamo noni. Però mettendo tutto nel calderone restiamo inchiodati alla 31ma posizione globale, alla 17ma se consideriamo solo l’Europa.
Per capirne i motivi bisogna andare a leggere le considerazioni e i consigli degli esperti che hanno redatto la classifica. Il primo tallone d’Achille è la formazione del personale: i lavoratori italiani hanno una formazione vecchia che stenta ad aggiornarsi, al punto da avere competenze insufficienti per stare al passo con i tempi. Per non parlare di una insufficiente innovazione della Pubblica Amministrazione, della burocrazia definita “soffocante” e delle finanze che scarseggiano quando si tratta di erogare fondi per investimenti innovativi.
Nella relazione si legge in definitiva che “molti dei fattori che avranno il massimo impatto nel determinare la competitività in futuro non sono mai stati al centro delle principali decisioni politiche finora”. Un giudizio molto severo che spinge a una riflessione profonda su molti fronti.
Che la digitalizzazione abbia investito ogni area del paese e della vita delle persone è ormai chiaro a tutti, applicarla a tutti i settori però è ancora una chimera per un’Italia spesso vittima della paura di innovare, incapace di unificare i sistemi informatici di sanità, amministrazione pubblica e istruzione. Un Paese che tende a mantenere le barriere fra Comuni e fra Regioni, e a conservare vecchie concezioni di gestione, piuttosto che dare un colpo di spugna e ricominciare da capo. Certo fa paura che qualcosa possa non funzionare, ma non si può nemmeno dire che quello che c’è funziona. Pensiamo alla mancanza di un database nazionale sui vaccini, alla carta d’identità elettronica erogata a macchia di leopardo sul territorio, alle prenotazioni online rare e spesso non funzionanti, all’assenza di servizi interattivi per interagire online con la pubblica amministrazione locale.
Il World Economic Forum ci ha detto chiaramente che la digitalizzazione non è una questione secondaria e che mettere alla portata di tutti gli strumenti innovativi che l’informatica offre è un dovere non prorogabile. Servirà di lezione?