di Barbara Pigoli*
In materia di formazione è molto importante il ruolo delle parti sociali, sindacato in primis, per mettere in atto modelli di concertazione sistematici e per scongiurare il rischio di accumulare condizioni di svantaggio rispetto ai fabbisogni di competenze delle piccole imprese e dei lavoratori meno qualificati. E le parti sociali hanno specifica titolarità a intervenire nell’ambito dei fondi interprofessionali, che peraltro – come risulta dal dato contenuto nel XVIII Rapporto sulla formazione continua a cura di Anpal – sono sempre più utilizzati.
I fondi Interprofessionali sono organismi bilaterali di natura associativa che fanno parte della rete nazionale dei servizi per le politiche del lavoro e finanziano piani formativi di tipo aziendale, settoriale, territoriale e individuale concordati con le parti sociali. I piani formativi concertati si differenziano dai piani formativi tout court perché prevedono – per l’appunto – il coinvolgimento attivo, in particolare, delle organizzazioni sindacali in tutte le fasi di elaborazione e realizzazione. Dal momento che il tema della formazione è strettamente correlato al tema della trasferibilità e dell’appropriabilità, le piccole imprese poco strutturate, prive di rappresentanze sindacali interne, non sono generalmente motivate a coinvolgere categorie svantaggiate e non sono in grado di individuare parametri per valutare adeguatamente gli effetti benefici della formazione.
È questo il motivo per cui la formazione è scarsamente valorizzata a livello gestionale e difficilmente oggetto di reale progettualità strategica, tant’è che nelle piccole imprese i corsi di formazione vengono tipicamente organizzati solo come adempimento normativo o come risposta a fabbisogni di breve periodo. La tendenza da parte delle piccole imprese a non mettere in atto progettualità a lungo termine, quindi il rischio di non disporre di adeguate competenze in grado di innovazione e apprendimento – ed escludere dalla formazione i lavoratori svantaggiati – è estremamente elevato.
Le parti sociali – deputate a definire congiuntamente il quadro strategico e gli obiettivi del piano formativo finanziato tramite i fondi interprofessionali e a costituire la committenza congiunta nei confronti dei “soggetti tecnici” (enti di formazione) sulla base dei fabbisogni emergenti – dovrebbero articolare i Gap di competenze e la domanda formativa di imprese e lavoratori, e solo successivamente affidare ad adeguati “soggetti tecnici” la gestione delle attività formative.
Nella pratica e stando alla mia esperienza, però, il sistema risulta capovolto. L’offerta da parte dei “soggetti tecnici” prevale sistematicamente sulla domanda e la scelta delle aziende cui erogare la formazione, dei destinatari della formazione e dei contenuti dei piani formativi non è frutto di concertazione bilaterale, ma di negoziazione con logiche di mercato fra i “soggetti tecnici” e il management aziendale. Con la conseguenza che i “soggetti tecnici” stabiliscono quali imprese coinvolgere, incontrano il management, propongono la formazione da erogare e solo successivamente convocano i sindacati per la condivisione, i quali possono solo ratificare o meno a posteriori decisioni già assunte.
Ma la sottoscrizione del piani formativi e la costituzione di un sistema formalizzato di governance bilaterale (Comitato paritetico di pilotaggio) non è garanzia di condivisione, dal momento che è frutto di un’elaborazione tecnica e la sola tecnica non è garanzia di bilateralità. Risulta così che sia nella fase di analisi della domanda che nella fase di definizione dei fabbisogni formativi, le decisioni del management sono privilegiate, in fase di progettazione manca un momento strutturato per la partecipazione bottom-up dei lavoratori coinvolti e il monitoraggio sugli impatti della formazione sulla competitività delle imprese e sull’occupabilità dei lavoratori non viene realizzato, dal momento che anche quest’attività è legata ai finanziamenti ottenuti e l’erogazione dura di norma solo 12 mesi.
Dal 2015 l’Anpal, che ha delega a vigilare e monitorare sui fondi interprofessionali (articolo 9, comma 1°, d.lgs. 150/2015) e ha fissato tramite una circolare le modalità e i criteri di gestione delle risorse assegnate ai fondi, governa un sistema in cui si presuppone l’effettività dell’approccio bilaterale, ma in cui i dispositivi di condivisione formali non garantiscono la partecipazione attiva dei beneficiari e dei destinatari, con la conseguenza che le prevalenti logiche di mercato penalizzano ulteriormente le piccole imprese e i lavoratori a elevato rischio occupazionale. Solo un sistema bilaterale concretamente agito può garantire che le risorse dei fondi interprofessionali contribuiscano a promuovere l’effettività dei diritti al lavoro, alla formazione e all’elevazione professionale così come previsto dagli articoli 1, 4, 35 e 37 della Costituzione.
* Laurea Magistrale in Scienze Politiche (Università degli Studi di Milano) e Master in Lobbying & Public Affairs (Università LUMSA di Roma). Sono da sempre impegnata nel sistema della formazione continua e delle politiche attive per la formazione (governance del sistema, progettazione ed erogazione), e per 11 anni ho diretto un ente di formazione del sistema confindustriale (FormaMec ANIMA). Attualmente opero come libera professionista. Progetto Piani formativi e collaboro attivamente con Parti Sociali e associazioni di rappresentanza nell’articolazione della domanda formativa delle imprese e dei lavoratori. Relatrice a convegni istituzionali in qualità di esperta in processi formativi e corretto utilizzo dei Fondi interprofessionali, scrivo articoli, pubblicazioni ed erogo consulenze e docenze specialistiche sui processi di governance che caratterizzano i Fondi interprofessionali, la formazione continua e la bilateralità.