Comincia il secondo processo d'appello ordinato dalla corte di Cassazione per l'ex sottosegretario che a gennaio ha annullato con rinvio la sentenza emessa nel dicembre 2016. In primo grado il politico era stato prescritto per i reati commessi fino al 1994 e assolto per quelli degli anni successivi. Ora il pg Gozzo chiede l'audizione di nuovi testimoni: a cominciare da Giovanni Ingrasciotta, collaboratore di giustizia poi uscito dal programma di protezione
Il cerchio magico del latitante Matteo Messina Denaro “si recò alla festa di Antonio D’Alì” dopo la sua prima elezione al Senato nel marzo 1994. “C’erano Filippo Guttadauro, Giuseppe Grigoli, i fratelli Filardo (cugini di Matteo), Vito e Vincenzo Panicola e Saro Allegra”. A dirlo è Giovanni Ingrasciotta uno dei testimoni che la procura generale di Palermo ha chiesto di ascoltare nel processo in cui l’ex sottosegretario all’Interno di Forza Italia è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
È il secondo processo d’appello ordinato dalla corte di Cassazione che a gennaio ha annullato con rinvio la sentenza emessa nel dicembre 2016. In primo grado D’Alì era stato prescritto per i reati commessi fino al 1994 e assolto per quelli degli anni successivi. In secondo poi i giudici avevano negato la riapertura dell’istruttoria e l’audizione di alcuni testimoni indicati dalla procura generale. Una scelta “immotivata” secondo la Cassazione. Per questo il pg Nico Gozzo – alla luce di quanto scritto dagli ermellini – è tornato a chiedere la testimonianza in aula di venti persone e l’acquisizione di informative e sentenze passate in giudicato.
A partire da Ingrasciotta, collaboratore di giustizia poi uscito dal programma di protezione, cugino dei Panicola (famiglia di Castelvetrano imparentata con i Messina Denaro) da cui ha raccolto le confidenze. Nel 2012 alla procura di Trapani- oltre all’aneddoto sui festeggiamenti di D’Alì dopo l’elezione al Senato – ha raccontato la genesi del politico trapanese. Ci sono le “cene organizzate alla fine delle vendemmie in contrada Zangara” con Messina Denaro e il suo cerchio magico, il suo intervento a favore del giovane Matteo per “numerosi sub-appalti”. Poi c’è il sostegno elettorale alle elezioni politiche del 1994. Panicola gli aveva detto: “Salendo lui si risolvono tanti problemi, perchè lui è un uomo che appartiene a noi”. A quelle elezioni D’Alì venne eletto con 51.987 voti.
Secondo l’accusa, poi, la mafia trapanese tentò di far fallire la Calcestruzzi Ericina e il politico – secondo la Procura Generale – avrebbe garantito la “messa a disposizione della associazione mafiosa del ruolo istituzionale di senatore e di sottosegretario di Stato”. Per questo il pg chiede di ascoltare il collaboratore Nino Birrittella e un confronto in aula con gli amministratori giudiziari dell’epoca. D’Alì lamentava al prefetto Fulvio Sodano (poi trasferito) “un’alterazione del libero mercato”. I clan poi, avrebbero convinto Tommaso Billeci della Loria Spedialieri (già condannato per mafia e turbativa d’asta) a rescindere un contratto con la Calcestruzzi. L’intera vicenda ora sarà valutata dai giudici a cui viene chiesto di ascoltare Billeci e alcuni dipendenti dell’azienda.
Per un’altra storia di avvertimenti e sottili minacce viene chiesta anche l’audizione dall’allora capo della Polizia, Gianni De Gennaro (attuale presidente di Leonardo, ex Finmeccanica) in merito al tentato trasferimento del capo della Squadra Mobile di Trapani, Giuseppe Linares. Che alla fine deel 2010 fu davvero trasferito ma i fatti contestati riguardano gli anni precedenti. Nel 2002 l’ex dirigente della Mobile, adesso all’Anticrimine, incontrò D’Alì che lo fece contattare tramite il centralino del ministero. “Mi disse testualmente ‘sarebbe il caso che lei se ne andasse’, e mi disse che ero troppo esposto. Il tono era algido”. I tentativi ci furono ma secondo la Procura Generale “non andarono a buon fine non certo per la volontà del D’Alì ma per l’argine che frapposero prima il procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato, e poi l’allora procuratore capo Bordero Maccabeo”.
Ormai fuori dalla scena della politica attiva, D’Alì si era candidato nel 2017 a sindaco di Trapani (fu sconfitto al primo turno) ma durante la campagna elettorale i pm della Dda di Palermo ne chiesero l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza bollandolo come socialmente pericoloso. Ne scaturì un processo, tuttora in corso davanti al sezione misure di Prevenzione del tribunale di Trapani. Anche nell’Appello-bis il pg scrive che i rapporti tra il politico e Cosa nostra “sono ancora attuali”. Chiede l’acquisizione dell’informativa su un incontro con Girolamo Scandariato (accusato di mafia e figlio del boss di Calatafimi) arrestato nell’operazione dei carabinieri “Pionica”. L’episodio risale al 2014 e D’Alì stava incontrando Scandariato e altre persone per affittare un suo terreno di 22 ettari in cui gli acquirenti hanno poi piantato 13.200 alberi di Paulownia. Per la procura generale è chiaro il riferimento a uno dei pochi elementi su cui concordano tutti i gradi di giudizio sinora espressi: la compravendita del terreno di contrada Zangara tra D’Alì e Francesco Geraci, compare di Messina Denaro.