Chiedere scusa. Al pari del ringraziare, scusarsi è una pratica che dovrebbe essere alla base dell’educazione famigliare prima e di quella scolastica e sociale poi. Riconoscere di avere sbagliato significa ammettere che si è fallaci, sì, ma migliorabili. Questa pratica di relazione quotidiana umanizza e aumenta la reciproca empatia, abbassando il livello del conflitto e ristabilendo nella maggior parte dei casi l’equità.

Ma il discorso diventa diverso quando a chiedere scusa sono le istituzioni. Se chi ci rappresenta chiede scusa, (anche se non direttamente coinvolto nell’errore) a una sola persona come a un gruppo, significa che la politica si assume la responsabilità per l’ingiustizia commessa e che questo errore e la sua riparazione ci riguarda come collettività.

Sembra, rispetto al livello dell’Italia attuale, provenire da un altro universo ciò che è avvenuto in Norvegia in questi giorni. Qui la prima ministra Erna Solberg ha pubblicamente rivolto le scuse ufficiali del governo alle concittadine che, durante la seconda guerra mondiale, furono punite anche con durezza e ricoperte di disprezzo, (esteso spesso anche ai figli e alle figlie), per avere avuto relazioni con soldati tedeschi.

Durante l’invasione della Norvegia, nel 1940, si stima che circa 50mila donne ebbero rapporti intimi con i soldati tedeschi, incoraggiati dall’ossessione per il miglioramento della razza ariana del capo delle Ss Heinrich Himmler. Quelle che in seguito furono ribattezzate le “ragazze tedesche” alla fine della guerra subirono l’accusa di avere tradito la patria: spesso vennero private dei diritti civili, rinchiuse in carcere o furono espulse verso la Germania, con gli eventuali figli e figlie.

Può una collettività sanzionare delle donne per avere amato o talvolta essere state costrette a rapporti sessuali con il “nemico” e quindi essere giudicate come nemiche per questo? È la domanda che il governo norvegese si è posta e alla quale ha dato una risposta, dimostrando che la politica può (e deve) interrogarsi a fondo sul passato recente così come sull’intricato aspetto delle relazioni umane, perché anch’esse, pur essendo private, hanno una ricaduta collettiva che non può essere ignorata, pena la rimozione di un pezzo di storia collettiva e con essa la valutazione di eventuali ingiustizie.

“Le autorità norvegesi – ha dichiarato Solberg – violarono la regola fondamentale secondo cui nessun cittadino può essere punito senza processo o condannato. Per molte fu solo un amore adolescenziale, per alcune l’amore della loro vita con un soldato nemico o un flirt innocente che le segnò per sempre”. Lo stigma della “traditrice della patria” (in Italia le donne accusate di avere rapporti con i fascisti venivano nel migliore dei casi rasate, come racconta il bel film con Silvana Mangano Jovanka e le altre) gravò in Norvegia in modo pesante sui bambini e le bambine nate da quelle unioni, il cui numero si aggira intorno alle 12mila unità. Molti gli atti di vendetta contro di loro, tanto che nel 2007 un gruppo si appellò alla Corte europea dei diritti umani per chiedere giustizia, senza però alcun risultato.

La capacità di guardare agli eventi con la distanza riflessiva, ammettendo che nonostante l’asprezza delle situazioni si può aver sbagliato è ancora un tabù in Italia, se si guarda agli eventi della guerra e del fascismo. Di recente una forte polemica si è scatenata in Liguria per la proposta, da parte di un consigliere di centrodestra, di istituire una targa in memoria di una 13enne uccisa dai partigiani perché sospettata di essere una collaborazionista.

Nella inevitabile e strumentale diatriba social tra Anpi e forze politiche di destra e sinistra ha spiccato un’evidenza: a nessuno è importato davvero ragionare sul fatto che si trattasse di una bambina, del fatto che si era in guerra e che il suo assassinio, forse preceduto da stupro, è stato un femminicidio. Abbiamo molto da imparare dalle scuse della Norvegia alle donne: solo ammettendo che la vendetta e la rivalsa non sono la strada per costruire l’equità si può aspirare ad una giustizia giusta tra esseri umani.

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